giovedì 29 novembre 2007

TAKE A HOLIDAY IN SPAIN - Bruce Springsteen a Madrid/Bilbao, 26 e 27 novembre 2007




In early September 1982, more than 25 years ago, I was walking the streets of Madrid listening to a cassette tape that had some very good music and more than a little hiss. It was a pre-release of Nebraska that a friend gave me on that holiday in Spain. When the album came out, some weeks later, surprisingly some of the hiss was still there on the vinyl, but I didn't care. It was part of the deal. Those songs sounded so rough and brilliant - and they still do.

Back then, I had the feeling my favorite artist was speaking to me and a few others. Could I imagine that, after those folky songs that followed The River, Bruce Springsteen was going to become everybody's artist? No. Born in the U.S.A. proved that I lacked some imagination. And I still do, when it comes to predicting what Springsteen's next move is going to be.

Now that he is everybody's artist, I don't give a damn that he is still a hard ticket. I travelled back to Spain to see the first two nights of this European leg, and I found what I was hoping for when sitting in La Plaza del Sol a quarter of a century ago, with my headphones blasting "Reason to Believe." I had dreamed of how that spare, bluesy rock'n'roll would sound if played with the magnificent E Street Band. As we all left the El Palacio De Deportes after the opening night of this 2007 European tour, my ears still resonated from what - once again - I was not so brave to predict. The new, roaring version of "Reason to Believe" at least doubled the pleasure I had when San Diego rockers Beat Farmers covered the tune in 1985. This E Street Band treatment shows how powerful Bruce and his mates can be when they challenge themselves to jump the fence and leave some of their cliches behind. That's when they turn from great to extraordinary.

What I now hope is that the challenge continues through what is shaping up to be a long tour, as it returns to the U.S. and comes back here for the summertime.

In 1984-85, Springsteen had a strong album to tour behind, but he still expanded his already brilliant catalogue to extremes that made you think he never stopped writing, thinking, considering or reconsidering his work. Newly written songs like "Sugarland" and "Man at the Top" came. "Shut Out the Light" was not forgotten, as many B-sides tend to be. "Atlantic City," in its live incarnation, became so wild and powerful, I imagined Bruce listening to a lot of U2 and Big Country before hitting the road. To many of us, all of that made Springsteen an artist you wanted to go see perform night after night after night.

Now, in 2007, nine songs out of 12 from Magic are in the set, yet I don't have a feeling they strongly mark the tour. How can that be possible? Are they weak songs? Not at all. "Radio Nowhere" is a powerful opener, and "Long Walk Home" (which shines even more with Steven's vocals) is a magnificent example of how Bruce is probably the only artist of his generation still capable of matching today his finest writing of yesterday. "Girls in Their Summer Clothes" is the perfect pop song you'd might not expect at this point in Bruce's career, but there it is: brilliant, lovable, simply beautiful. So what's the problem?

I thought about it, and the answer (at least to me) lies in what surrounds those new ones in the set. So many of the other songs -- other than "Reason to Believe," of course -- make me feel it's 1999 or 2002 again. "Tunnel of Love," which in Madrid sounded so good and was linked thematically to "I'll Work For Your Love," is a good example of how an old and (recently) rarely played song can pop up and benefit the show much better than others.

Bilbao was a hell of a show. But I also can't help feeling that this tour has an incredible potential hidden somewhere. A smarter rotation of the songs, some sacrifice (ironically, I think dropping a couple of Magic songs might benefit the rest, allowing people to better focus on the new tracks), a couple of covers (think back to 1988 - how great were Tunnel of Love songs in the context of the live show, surrounded by great cover choices?) and a new, more adventurous approach to old classics would make our minds blow.

Or, as the Counting Crows sing in "Holiday in Spain" (a song I think would not exist without Bruce Springsteen), should I "flush my worries down the drain"?

dal sito Sony/Columbia www.brucespringsteen.net

lunedì 5 novembre 2007

EAGLES - LONG ROAD OUT OF EDEN: ancora tra Inferno e Paradiso, ventotto anni dopo


“This could be heaven or this could be hell”.

Ve la ricordate Hotel California, la Stairway To Heaven americana, quella con uno tra i migliori assolo di chitarra che il rock abbia mai offerto?
Se ve la ricordate – ma di dubbi ne ho proprio pochi: chi non conosce Hotel California? – conoscete la tensione e l'incertezza che si respiravano tra le mura di una tra le più fantasticate dimore cantate dal country-rock, e non solo. Ci avevano provato i Flying Burrito Brothers di Gram Parsons col loro Gilded Palace Of Sin a evocare quel clima torrido, da girone dantesco, che doveva aleggiare tra i santi e i peccatori di quella California tutta chitarre acustiche e armonie vocali. Però gli Eagles sono gli Eagles, croce e delizia di quella terra di musicanti, indiscutibilmente i più grandi. Sono loro – nessuno dei componenti nato da quelle parti, ma cosa conta la carta d’identità? - ad aver raccolto l’eredità dei Byrds e di Flying Burrito Brothers, che della band di Roger McGuinn erano stati una costola. E allora si prende la lente d’ingrandimento.

Le enormi qualità di ogni prodotto finora marchiato con quel nome a sei lettere, il fatto che la band sia il terzo anello di quella dorata catena di canzoni e sentimenti “made in L.A.” (con Bernie Leadon, transitato dai Flying Burrito alle Aquile, a portare il testimone nel 1971 come Chris Hillman aveva fatto, tra Byrds e Burritos, qualche anno prima), ma anche le interessanti carriere soliste seguite al dopo The Long Run: tutto ha lasciato che i riflettori fossero puntati sulla vicenda così a lungo. Perchè da 28 anni, proprio da quel disco del 1979 a cui aveva fatto seguito solo un live di addio, si attendeva un nuovo album di quella che ora più che mai è la band di Don Henley e Glenn Frey, che hanno fatto nel frattempo fuori anche Don Felder (con loro dal 1976 e poi rientrato per la reunion anni Novanta) e al loro fianco tengono un posto ai soli Timothy B.Schmit e Joe Walsh, che si spartiscono le briciole (vabbè, chiamiamole briciole!).

Proprio da questa autoritaria divisione della posta nascono un po’ dei problemi che gli Eagles mostrano nel loro ritorno. E’ la doppia monarchia attuata dei due autori più dotati del gruppo a fare il bello e il cattivo tempo in Long Road Out Of Eden, un disco che è azzardato definire brutto o deludente, ma che solo con una certa difficoltà si può definire pienamente convincente.
Il faticoso atterraggio è un disco da tre stelle che con qualche attenzione e più di una limitazione avrebbe potuto portarsi a casa una pagella più onorevole e adeguata a tanto pedigree.


Questo pensiero anima la sintetica recensione a mia firma che apparirà sul numero di dicembre di Rolling Stone, testata che, nella sua edizione originale, salutò gli Eagles del 1979 con una copertina che per un po’ sarebbe stata l’ultimo grande urlo mediatico del gruppo. Perché a The Long Run seguì un tour, poi tanto silenzio.

Da allora ad oggi sono piovute sul mercato molte raccolte che hanno continuato a vendere moltissimo (Their Greatest Hits 1971-1975, prima della serie, resta con 29 milioni di copie l’album più venduto di tutti i tempi), un buon numero di album per carriere soliste a luce alterna e pochissimi inediti a punteggiare i reunion tour che mai facevano seguito ad un nuovo disco in studio.
Detto e confermato: pochissimi. Quattro in Hell Freezes Over, il live (e speciale televisivo sul canale VH-1) con cui la band si ripresentò nel 1994. Poi Hole In The Wall nove anni dopo. Poi ancora, nel 2005, No More Cloudy Days, che vivacizzava il repertorio, già sentito, del dvd Farewell I: Live From Melbourne. Se proprio vogliamo guardare il pelo, l’edizione dello stesso dvd venduta dalla catena Wallmart durante il Thanksgiving 2006 garantiva agli acquirenti altre due canzoni (Fast Company e Do Something replicate nel doppio appena uscito). Tutto compreso fanno otto canzoni nuove in ventotto anni, in media una ogni tre anni e mezzo. Numeri in grado di sfinire anche i fan meglio disposti.



Ma ora ci siamo. Long Road Out Of Eden è nelle mani di tutti, esposto al piacere di chi vuole far finta che siano tutte luci sulla collina di Hollywood ed anche alle invettive di chi “ma insomma, è proprio il meglio che avevate?” e “proprio necessari tanti pezzi?”.
Il sottoscritto, pur trovando motivi di soddisfazione tra queste venti tracce (la ventunesima, Hole In The Wall, è nell’edizione giapponese), si colloca nella seconda categoria.

Molti i perchè. Vediamone alcuni.

- Don Henley e Glenn Frey, coppia d’oro, sorta di Lennon e McCartney della west coast, gente con all’attivo titoli meravigliosi (bastano The Best Of My Love, One Of These Nights, Wasted Time, The Long Run e Tequila Sunrise, o ne volete altri?), compongono insieme solo quattro pezzi. Più due nei quali dividono il credito ora con il bassista Timothy B. Schmit, ora con il chitarrista aggiunto Steuart Smith (visto anche nei concerti italiani del 2001 e 2006, è quello che ha preso il posto di Don Felder).

- Come giustificare la contemporanea presenza di How Long, un pezzo del 1972 scritto e allora inciso da John David Souther, e Fast Company? Il primo riecheggia più Already Gone che Take It Easy ma sono dettagli: la pasta è Eagles ai primi passi, quel country-rock che ha fatto decollare la band, allora organico a quattro con Bernie Leadon che ricamava anche di banjo e mandolino. La seconda ha quel livido passo da Eagles epoca The Long Run, disco in cui uno scivolone come The Disco Strangler veniva coperto da ben altre meraviglie e da una compattezza d’album che qui manca del tutto. I due pezzi, forse il migliore ed il peggiore tra i venti proposti, sembrano i punti più distanti della produzione della band: gli antipodi che non dovrebbero guardarsi nemmeno da lontano e che invece sistemati qui sembrano le cifre stilistiche più distanti tra le molte offerte negli anni dalla formazione californiana.

- Walsh e Schmit hanno talento ma restano dei comprimari. In The Long Run portavano sulle spalle rispettivamente In The City (gigantesca, anche in una scena de I guerrieri della note) e I Can’t Tell You Why, falsetto alla Bee Gees più che Poco ma decisamente classica bella categoria “ballads” e in più impreziosita da un assolo di chitarra non epico come quello di Hotel California ma ugualmente lodevolissimo. I due sarebbero capaci di altro, perché con James Gang e Poco qualche bella medaglia se la sono appiccicata sulle giacchette, ma la sensazione è che l’ombra dei due padroni del negozio non gli faccia bene. Quando Walsh gigioneggia in Last Good Time In Town sembra di ascoltare certo rock pastrocchiato di spezie caraibiche e cucinato col suo amico Joe Vitale. Non solo, il brano è a tratti una strana brutta copia di Do It Again degli Steely Dan.
Quando poi Schmit spreme la tonsilla per What Do I Do With My Heart, più che al county rock al cui il giovanotto ha regalato piccoli capolavori come What Ever Happened To Your Smile, Magnolia e Keep On Tryin’ viene da pensare agli irritanti Chicago di Hard To Say I’m Sorry.
Non è finita: la piccola bottega degli orrori ha lo scaffale mezzo pieno.
Detto di Fast Company, basta girarsi in direzione della canzone che dà il titolo all’album per arricciare ancora il naso. Di solito le title-track portano la bandiera: qui sono invece oltre dieci minuti che è come stare seduti in un teatro a vedere Notre Dame De Paris. Pretenziosa, con un intro che non sai se hai davanti una nave che salpa o un mercato mediorientale, The Long Road non finisce mai. Anzi, raccoglie, in questo generosa, vizi e virtù di Henley. Il suo songwriting elegante, quel denunciare minaccioso, parole di guerra in Iraq sputate da un militare che gira tra la sabbia facendosi giuste domande (qualcuna ricorda Devils & Dust di Springsteen) potevano farne un capolavoro, ma qui c’è troppo. Quando hai voglia che sia finita, la canzone riparte. C’è aria di concept album quando, subito dopo, spunta la melodia di I Dream There Was No War, un po’ Dan Fogelberg un po’ lo spot del Mulino Bianco, ma lo strumentale di Frey ha di buono che sta dentro ai due minuti e non ti pare vero che liberi Somebody, un rockenrollino pensato con Jack Tempchin (quello di Peaceful Easy Feelin’) per farci riprendere aria. Niente di trascendentale, fa però l'effetto di una limonata in un campo di guerra, e in fondo si gode, anche grazie alla slide di Walsh.

Saremmo infidi se indugiassimo sul mezzo disco che non va (che poi, visto che parliamo di un doppio, il disco che non va è in realtà un disco tutto intero, diciamo una decina di pezzi da rimandare a settembre). Allora, calcolatrice alla mano, i dieci brani su cui ritornare quando ci mancherà un nuovo album degli Eagles raccolgono due stelle. Quattro potremmo darne alle altre dieci composizioni, quelle che ci avrebbero regalato un degno e ispirato seguito a The Long Run. La media fa tre. Ecco, il problema: tre stelle agli Eagles che tornano in forza dopo quasi trent’anni sono un dolore al cuore, un dolore che non passa nemmeno dopo che hai fatto la tua bella compilation salvando il salvabile e arricchendo il tutto con Hole In The Wall e magari Part Of You, Part Of Me, che nel 1991, per Thelma & Louise, Frey compose pensando di essere ancora accoccolato nel lettone buono di Albergo California. Infidi, dicevamo. E allora ecco una giusta pioggia di complimenti, per finire in bellezza e andarcene con la coscienza a posto, “chè a questi ragazzi in fondo ci vogliamo bene”.



Le stelline che più brillano sono quelle che rischiarano il cielo un po’ cupo che sovrasta il deserto di copertina. Tra quelle sagome che dall’interno ci guardano - nient’altro che Henley, Frey, Walsh e Schmit impernacchiati di nero e un po’ invecchiati – è rimasto del talento, eccome se è rimasto. Lo scopriamo felici quando apriamo le porte delle stanze meglio arredate di un appartamento inutilmente ampio, dove fatichi un po’ a trovare l’angolo preferito nel quale leggere un libro e aspettare che venga notte.
Ma quando il sopralluogo è ultimato, sono una decina – e bastano – gli ambienti in cui muoversi a completo agio.

Vai con i titoli, con dieci perché e un solo dubbio.

- HOW LONG (perché se non l’avete già sentita sul primo album di J.D.Souther nel 1972 è ora che vi svegliate)
- BUSY BEING FABULOUS (perché quando friggono quei dolcetti di lieve rhythm’n’blues sti mascalzoni sono sempre i più bravi, e questo – cantato da Henley - va giù come One Of These Nights e certo pop soul saltato in padella da Frey)
- NO MORE CLOUDY DAYS (perché anche se le spazzole che accarezzano i piatti e il sax di Greg Smith sono rubacchiati da Secret Garden di Springsteen qui c’è da mettere il culo su quel deserto e non rialzarsi più, anche perché si prevede una giornata di sole)
- DO SOMETHING (perché il capellone Schmit si riscatta e canta che è un piacere una canzoncina da mettere a loop, con quella chitarra acustica, quella pedal steel e quel falsetto)
- SOMEBODY (perché questa canzone sembrerà banalotta e già sentita, e suona come uno scarto di Frey/Tempchin da Miami Vice, ma mettetela tra le altre e... cavoli se cammina!)
- FRAIL GRASP ON THE BIG PICTURE (perchè una zampata rock-blues a questo disco fa bene, e poi perchè nessuno lo dice ma quando c’è da graffiare il governo americano gli Eagles sono sempre in prima linea con testi di grande qualità)
- YOU ARE NOT ALONE (perché ogni volta che una canzone canta “manda un arrivederci al dolore e al dispiacere” ci sentiamo meno soli, e se è Frey a confezionarla con tre accordi e tre strumenti ti spunta il sorriso - questa l’avrebbe potuta scrivere Bob Seger)
- GUILTY OF THE CRIME (perché senza un pezzo cantato da quel matto di Joe Walsh questo non sarebbe un disco degli Eagles)
- I DREAM THERE WAS NO WAR (perché con quel titolo sa di cose scritte tanto tempo fa e l’unica cosa che non va è che purtroppo è così attuale)
- I LOVE TO WATCH A WOMAN DANCE (perché è un bel modo per scoprire un autore bravissimo, Larry John McNally, che aveva già dato Nobody’s Girl per Bonnie Raitt e, più recentemente, For My Wedding a Don Henley)




Il dubbio:
Tra queste dieci canzoni avrei trovato un posto anche a It's Your World Now se solo Glenn Frey non avesse abbellito troppo la sua Tequila Sunrise anni Duemila. Il passo tex-mex è lo stesso con cui ha affrontato, fuori da casa Eagles, alcune pagine belle dei suoi dischi solisti. Il chitarrone da East L.A. suona felice, la fisarmonica asseconda una melodia che sa di Roy Orbison (Running Scared), ma trombe degne di un gruppazzo mariachi rovinano la festa involgarendo un pezzo che chiedeva un accompagnamento più sobrio. E alla fine, altro che Big O, qui sembra di sentire O Sole Mio. Scegliete voi, dopo averla ascoltata, se usarla per chiudere l’album che anche voi avrete ricompilato o rispedirla tassata al mittente.

Giuro che se questi mi fanno aspettare altri ventotto anni per un nuovo album e mi costringono ad altre acrobazie per spremere venti canzoni e farne un dischetto singolo con cui campare tranquillo gli tolgo la bussola, le chitarre e le carte di credito.
Poi voglio vedere nel deserto che fanno.

ps) Glenn, Don, Tim, Joe: the best of my love.

sabato 3 novembre 2007

KEVIN ROWLAND E I CORRIDORI DI MEZZANOTTE: meraviglie che ritornano


Per la serie “meraviglie tirate a lucido e ingrassate a dovere”, salutiamo Too-Rye-Ay (1982), il più bel disco di Kevin Rowland e dei suoi boys - lui e loro noti come Dexys Midnight Runners - rimasterizzato (ma era già accaduto una decina di anni fa, con 8 bonus tracks) e oggi in versione “estesa”. Ma facciamo ordine, ad uso dei reduci da questa bellissima avventura iniziata nei primi Ottanta, quando questa combriccola messa su a Birmingham da un irlandese (l’eccentrico Kevin) arrivò a conquistare l’America con un impasto di soul, beat inglese e musica celtica che per gli ingredienti farebbe pensare a Van Morrison, ma che la voce alta e bizzarra del capetto portava altrove, in un luogo poco definibile. Certo, dal cowboy di Belfast un pezzo l’avevano preso in prestito (è qui: Jackie Wilson Said) ma molti trucchetti e pazzie erano farina del loro sacco. Celtic soul brothers li chiamarono dall’altra parte dell’Oceano, e facevano bene.


Arrivarono alti in classifica con Come On Eileen, da questo loro secondo album, poi evaporarono lentamente, andando ad ingrossare le fila di quella squadra di cui nessuno chiede una maglia, gli “one hit wonders”, quelli da “un successo e via”. Too-Rye-Ay ha tutto per essere raccomandato a chi di Kevin Rowlands non ha mai sentito nulla: è caldo, frizzante, ballabile, figlio degli spavaldi anni Ottanta ma radicato nei più timidi anni venuti prima. A ripensarci oggi, le orme di questi tipetti che amavano tante musiche, e tutte belle, le avevano ricalcate in chiusura di decennio gli Hothouse Flowers, anche loro tramontati pian piano dopo averci lasciato un album folgorante (People, 1988). Una maledizione il successo, per entrambe le formazioni. Talento volato via.
Stavamo mettendo ordine: allora, c’è qui, in questa edizione de-luxe”, tutto l’album più una manciata di outtakes e pezzi dal vivo (il cd1) e un generoso gruppo di registrazioni live (cd2) risalenti a quei giorni “caldi” (1982), in cui tutto appariva possibile. Sono proprio le BBC sessions ritrovate a mettere malinconia, perché tra hit originali e classici del soul (Respect di Aretha Franklin) tornano a vibrare le corde di quel gioioso rhythm’n’blues fabbricato nella vecchia Europa ma con il cuore tra Memphis e la California.
Rowland, che pure ha abbozzato un duplice rientro solista (1988, 1999), non ha mai più volato così in alto. Anzi, si è smarrito così tanto da pubblicare un disco di cover, My Beauty, così imbarazzante e mal concepito che a leggere i nomi degli autori (Lennon/McCartney, Bacharach, gli Squeeze) si prova solo dispiacere.
E.L - da Rolling Stone #49, novembre 2007

Leggi il blog di Kevin Rowland su Van Morrison
http://blog.myspace.com/index.cfm?fuseaction=blog.view&friendID=135573349&blogID=230445318