venerdì 26 dicembre 2008

BABBO NATALE SI E' PORTATO VIA EARTHA KITT



Eartha Kitt è morta ieri in un ospedale di New York. Era la voce della "Santa Baby" originale, da lei incisa nel 1953 e ripresa da Marilyn Monroe e da altre stelline come Kylie Minogue, le Pussycat Dolls e Madonna. Qualcuno ricorderà che quarant'anni fa, al Festival di Sanremo vinto da Sergio Endrigo con "Canzone per te", Eartha cantò in coppia con Peppino Gagliardi.
Eartha Kitt e Babbo Natale, che singolare appuntamento. Lei aveva cantato "Santa Baby, mio Babbo Natale, portami una decappottabile del '54, celeste chiaro, e fai presto, scendi da quel camino", lui è passato a portarsela via proprio il 25 dicembre.

copia il link e guarda "Santa Baby" su You Tube
http://www.youtube.com/watch?v=xOMmSbxB_Sg

giovedì 25 dicembre 2008

BUON NATALE - HAPPY CHRISTMAS


Buon Natale a chi commissiona gli articoli e poi se ne dimentica. Buon Natale a quello che ancora crede che gli abbia rubato l’idea per un libro che ho semplicemente pensato prima di lui. Buon Natale a quel giornale che non parla mai dei miei libri. Buon Natale a quello che dietro a una telecamera ha detto “salutiamoci qui” (e allora salutiamoci qui!). Buon Natale al “fratello” che sarà al Festival. Buon Natale agli irriconoscenti e a quelli corti di memoria. Buon Natale anche a loro, certo, perché – come dicono gli americani – “anche i cani hanno un giorno fortunato”.
Buon Natale alla mia Vespa vecchietta (non è quella della foto però siamo lì) perchè mi fa sentire più giovane.
Ma soprattutto Buon Natale a chi può camminare a testa alta e a tutte le persone che mi vogliono bene. Vi voglio bene anch’io. E per questo vi auguro di restare per sempre giovani.

“May you grow up to be righteous
May you grow up to be true
May you always know the truth
And see the lights surrounding you
May you always be courageous
Stand upright and be strong
May you stay forever young
-(Bob Dylan)

giovedì 4 dicembre 2008

EDOARDO BENNATO: L'isola, anzi, il cantante, che non c'è


2 dicembre. Era stato annunciato, il suo nome era sulle locandine, Repubblica aveva pubblicato un trafiletto che parlava della sua presenza al concerto, nel pomeriggio Radio Città Futura aveva dedicato uno speciale all'evento di beneficenza "Light of day" (vedi blog qui sotto) promuovendo l'ipotizzato incontro tra il cantautore napoletano e i suoi colleghi americani. Edoardo Bennato non si è visto nè sentito. Peccato.

martedì 2 dicembre 2008

LIGHT OF DAY: la canzone americana sbarca oggi a Roma con Willie Nile, Jesse Malin, Joe D'Urso e i Marah. Per una buona causa.


Concerto di Beneficenza - Light of Day
Roma, 2 Dicembre 2008 (Stazione Birra)

Il sound della East Coast americana a favore della ricerca sul Parkinson, SLA e Sclerosi Multipla.
Una “Acoustic rock night” con la partecipazione di Willie Nile, Jesse Malin, Marah, Joe d’Urso. Special guest: Edoardo Bennato.

"Suono una sera per me e una sera per l'altro ragazzo". C'era una volta Harry Chapin, autore di canzoni, newyorkese bravissimo a dare di block notes e chitarra, ma bravo forse ancora di più a ritenere che guadagnare una sera su due gli potesse bastare. Suonava una sera per lui e una per chi ne aveva più bisogno: "one night for me, one night for the other guy", appunto. E lo raccontava orgoglioso, ed anche un po' logorroico, a chi lo incontrava per caso. Per caso, una sera fu Bruce Springsteen a ritrovarselo sotto la finestra del suo hotel. Erano gli anni Settanta, quando poteva capitare che Chapin e Springsteen dividessero lo stesso motel fuori città, e poi giù a raccontarsi come era andata, ognuno in un club diverso, ognuno con la propria band. Poi Springsteen all’inizio degli anni Ottanta ha scritto e pubblicato “The River” prima di diventare una superstar planetaria, mentre a Chapin è toccato un incidente d’auto sulla Long Island Expressway a pochi chilometri dal prossimo club in cui cantare per “l’altro ragazzo”. Avrebbe devoluto l’incasso in beneficenza quella sera, invece ha trovato la morte. A 27 anni da allora, c’è ancora chi canta “one night for me, one for the other guy”.
L’altro ragazzo si chiama Bob Benjamin e a molti il nome dirà sicuramente poco. E’ una manager di periferia, precisamente del New Jersey del nord, uno che campa gestendo gli interessi e le serate di piccoli rock’n’roller ma che lo fa con la passione di chi finisce col dare alla musica tutto sé stesso, anche le ultime forze. Sta lottando da anni con il morbo di Parkinson ma non molla i club, le chitarre, l’agenda degli appuntamenti. Per lui hanno messo insieme nove edizioni di un evento di beneficenza, il “Light Of Day”, che è attraversato dal sogno che Bob possa farcela. E' capitato così che sul palco dello Stone Pony di Asbury Park incrociassero le chitarre Bruce Springsteen e l’attore Michael J.Fox, o che Southside Johnny, Garland Jeffreys e altri cantassero le loro canzoni appassionate in cambio di nulla, perché la “cassa” serviva a dare forza alla ricerca sul male terribile che aveva colpito il loro amico.


Alcuni dei protagonisti di quelle notti seguono le orme di Harry Chapin e senza mai mancare l’appuntamento americano del “Light of Day” (“luce del giorno”, dalla canzone che Springsteen scrisse per l’omonimo film dell’amico Paul Schrader), sono anche ospiti fissi di una piccola versione europea di quei concerti. Ormai giunto al terzo anno, il giro porta in Scandinavia, Spagna, Italia e altri paesi una carovana di amici di Benjamin.
Willie Nile è stato negli Ottanta sul punto di farcela a grandi livelli, ha aperto per gli Who, creato una strada alternativa su cui chi amava "Darkness On The Edge Of Town" e "The River" poteva trovare ballate da sogno (“Across The River”) ed energia pari a quella della E Street Band (“Vagabond Moon”), Joe D’Urso da molti anni si sbatte per i club della costa est e di tutta Europa propagandando con sudore e passione una musica che non poco deve al Boss (bella la sua versione di "Cadillac Ranch" incisa anni fa), i Marah sono stati un piccolo fenomeno a Philadelphia prima di incuriosire chi pratica il rock’n’roll anche fuori dalla Pennsylvanya, Jesse Malin è stato per qualche tempo insieme all’amico Ryan Adams “the next big thing” e per chi mastica certa musica è oggi ben quotato. La critica lo adora perchè è punk e classico al tempio stesso, uno che se deve eseguire una cover (nella cui scelta è un maestro) spazia dai Ramones di "Do you remember rock'n'roll radio" a "Wonderful world" di Sam Cooke.


Tutti insieme, forti delle loro ultime produzioni (tutte consigliabili, va da sé), daranno vita questa sera ad un set acustico che se non ci fosse la Stazione Birra di Roma (in realtà Morena, frazione alle porte della città, incastrata tra fabbriche di lampadari e il primo Ikea sorto in Italia) bisognerebbe andarlo a rincorrere in qualche localino del Greenwich Village, l’ex cuore folk di New York dove ha mosso i primi passi Bob Dylan e dove Springsteen tenne uno showcase per farsi notare dal produttore musicale e talent scout John Hammond, che poi lo portò alla Columbia Records, ad iniziare quel percorso musicale ancora vivo senza il quale non esisterebbero il “Light of Day” e i suoi protagonisti.
L’incasso della serata – che verrà aperta da Antonio Zirilli and the Blastwaves, romani ma è come se fossimo sulla New Jersey Turnpike – porterà denaro europeo, altre forze dunque, a chi sta cercando di frenare il Parkinson. Non solo, a beneficiarne saranno anche quanti stanno facendo ricerche sulla SLA e sulla sclerosi multipla.

Willie, Joe, Jesse e alcuni elementi dei Marah (tutti probabilmente raggiunti da Edoardo Bennato), siederanno in circolo, con le loro chitarre acustiche e la loro generosità, senza pensare a quanto andava facendo e dicendo Harry Chapin ma comportandosi esattamente come lui.

Sarà bello, per tanti motivi.
Poi tutti a Milano, si replica il 3 dicembre, con il rocker romagnolo Lorenzo Semprini guest star italiana al posto di Bennato.

martedì 4 novembre 2008

VOTE FOR CHANGE: secondo tentativo



There's a young man in a t-shirt
Listenin' to a rockin' rollin' station
He's got greasy hair, greasy smile
He says, "Lord this must be my destination."
'Cause they told me when I was younger
"Boy you're gonna be president."
("Pink Houses", John "C" Mellencamp 1983)

Dedicata a chi crede nelle profezie e a chi è convinto che "tifare" per un'America migliore non sia inutile esterofilia bensì una necessità. Per migliorare il mondo. O almeno per provarci.
E se poi in "Yes we can" iniziassimo a crederci anche noi...

venerdì 31 ottobre 2008

BRUCE SPRINGSTEEN E' FUORI DI ZUCCA: una nuova canzone per Halloween


Era accaduto che Bruce Springsteen cantasse a sorpresa in un club del New Jersey. Era capitato a qualcuno di passare davanti alla sua "mansion", a Rumson, e trovare una parata di zucche, streghette e fantocci, per la felicità dei piccoli di casa e del vicinato.
Era accaduto questo nel giorno di Halloween dalle parti del Boss e dintorni. Ma oggi, 31 ottobre 2008, Bruce ci lascia di stucco e fa il suo barbatrucco più riuscito. Scrive più o meno così sul suo sito ufficiale: "Scusateci se quest'anno, a causa del "catastrofico successo" delle passate stagioni, non festeggeremo Halloween nel nostro giardino, ma è per la tranquillità del vicinato e per non mettere in pericolo ragazzini e genitori". Il tono è buffo e divertito, ma il succo è: "Niente baldoria, ci dispiace, quest'anno va così".
Dopo "Magic", tra cilindri conigli e parole invece molto serie, di guerra e aria irrespirabile nell'America di Bush, Springsteen tira fuori dal suo cilindro - ehm, dalla sua zucca - una sorpresa inaspettata e spettacolare.
Ha confezionato un brano nuovo di zucca, no di zecca - "A Night With The Jersey Devil" - affondando le mani nel blues, un blues elettrico e sporco come certe cose di George Thorogood (vedi "Bad to the bone"), dotato di un tocco mefistofelico alla Tom Waits e con tracce dell'ultimo Dylan "in blues, naturalmente" e del rock'n'roll dei primordi (vedi "Heartbreak Hotel" di Elvis). Nulla di originalissimmo, un clichè oseremmo dire, ma urlato in un microfono molto blues, appunto, di quelli che Waits ama tanto e che lo stesso Bruce sfoderava sul palco mesi fa per cantare, rileggendola in perfetta chiave "musica del diavolo", la "Reason To Believe" ripescata da "Nebraska".
Di suo pugno, oltre alla canzone (che tra i credits di composizione elenca il Boss, Robert Jones e Gene Vincent), Springsteen ci mette una nota, che recita: "Cari amici e fans, se siete cresciuti nella zona centrale del New Jersey e anche a sud, saprete tutto del Jersey Devil. Beh, questa è tutta per voi, divertitevi!".

http://www.brucespringsteen.net/news/index.html

Così clicchi "play" e parte un videoclip realizzato con tutti i crismi, recitato anche, e il che non accadeva per Bruce da tempo. Ma che succede? Succede che dopo una grafica messa lì a ricostruire la leggenda del Diavolo del New Jersey ("tredicesimo figlio dei coniugi Leeds, tra i primi a sistemarsi nella Atlantic County circa 250 anni fa") ci assale un brano di rara potenza, non preannunciato. E' uno scherzo di Halloween o l'inizio di una cosa più seria?
Lo sapremo tra qualche settimana, quando forse verrà annunciato un nuovo album di Springsteen.
Certo è che fatti simili sono oggi possibili solo grazie alla potenza della Rete. Qualcosa, molto, sta cambiando sotto ai nostri occhi. Prendiamoci il bello, che vuol dire sorprese come questa e altre licenze che oggi gli artisti si concedono, e lasciamo che tutto il resto bruci nella fornace del diavoletto che qualche matto, nel New Jersey, ha persino giurato di avere incontrato "a long long time ago" in qualche palude.


Questo pezzo e le belle immagini di Springsteen (che cavalca in una notte sinistra, che spunta con sguardo truce dalle acque di un lago - il Greasy Lake? -, che soffia in un'armonica con la potenza di un consumato bluesman), sono per ora solo un bel regalo per Halloween, una festa che anche in Italia - vero bambini? - inizia a prendere piede. Ma chissà...


E c'è qualcuno che ora ricorda qualche concerto di Springsteen & The e Street Band anni Settanta, e quegli album bootleg che li immortalavano, intitolati "Hot Coals From The Fiery Furnace" e proprio "The Jersey Devil".
Diavolo di un Bruce!

PINOCCHIO E I TEMPI DURI


Heaven on earth
We need it now
I’m sick of all of this
Hanging around
- Peace on earth, U2

Chi ha, di questi tempi, tempi durissimi, il naso più lungo? Pinocchio o il Ministro Gelmini? A chi un due in condotta, al burattino o a chi lo ha strappato da una vetrina di Piazza Navona per farne un'arma da combattimento?
Che tristezza vedere quel simbolo bello di un mondo infantile rovesciato sui sampietrini, agitato come un manganello, troppo lontano oggi dai bonari gendarmi della fiaba e troppo vicino a una realtà che se non piace a noi, figuriamoci a lui, che la cosa più terribile che ha conosciuto è un Mangiafuoco nemmeno così spaventevole.
Questo 2008 somiglia tanto al 1968, tra atenei surriscaldati, cortei e scontri in piazza. Ieri tutti da una parte, contro un sistema da cambiare. Oggi tutti contro tutti, coi "neri", pochi, di Blocco Studentesco che vogliono chiudere le scuole private e i più pacifici "rossi", un popolo enorme e deciso a resistere, che contestano la "riforma non riforma" della scuola pubblica e vengono attaccati da chi è più vicino al governo.
Tra tutti, a spargere fuoco, un capo del governo più Mangiafuoco di quello di Collodi, occhi spiritati e lingua biforcuta.
Chi ha figli di quattro anni vede nero, chi li ha adolescenti vede nerissimo.
Perchè se la scuola è un disastro, il mondo è un incubo.

domenica 28 settembre 2008

PAUL NEWMAN - 1926-2008 - Addio spaccone


Coffee cups on the counter, jackets on the chair
Papers on the doorstep, but you're not there
Everything is everything
Everything is everything
But you're missing

Pictures on the nightstand, TV's on in the den
Your house is waiting, your house is waiting
For you to walk in, for you to walk in
But you're missing, when I shut out the lights
You're missing, when I close my eyes
You're missing, when I see the sun rise
You're missing

(Bruce Springsteen, 2002)

JOHN MELLENCAMP 2008: Vita Morte Amore e Libertà


Quando il titolo di un album e il nome dell’artista dicono tutto: Life Death Love and Freedom. Canzoni di solidarietà e sofferenza, la voce solida di un autore tutto d’un pezzo, che da un bel po’ ha rinunciato alla ribalta del rock più muscolare e visibile per battere la strada del folk rock con la stessa rabbia che fu di Woody Guthrie. Oggi Mellencamp scrive canzoni che stanno tra Leadbelly e John Prine, le canta con la saggezza e l’autorevolezza che ai tempi di Hurts So Good (da American Fool) nessuno gli riconosceva. Ma il tempo è passato e l’America non è più quella già malmessa degli anni Ottanta: è peggio ancora. Così si va a cantare nelle carceri come faceva Johnny Cash, si autoproducono lavori come questo (in team con il veterano T-Bone Burnett), che dice di stupri del corpo (Jena) e dell’anima (For The Children) perpetrati mentre un Kid Rock, che dovrebbe essere il nuovo che avanza, se ne va in giro a fare risse e inneggiare alla discriminazione razziale. Canzoni che se raschi il fondo ci trovi quasi sempre la parola libertà. Canzoni belle ma non sempre bellissime come quelle del Mellencamp di ieri, eppure utili e adatte al mondo di oggi.

Ermanno Labianca - da Rolling Stone #60, ottobre 2008
vai in edicola e leggi anche di Bono, Al Pacino, Peter Gabriel e Nils Lofgren

domenica 7 settembre 2008

7 SETTEMBRE: pensieri e desideri in un giorno come un altro - beh, non proprio.


Dal pomeriggio del 7 settembre 2003, quando la radio accesa mentre guidavo dalle parti di Princeton, NJ, ha avvertito, sulle note di My Ride Is Here, che Warren Zevon era morto di cancro ai polmoni, non faccio che pensare a quanto è triste che Warren Zevon non ci sia più. Per le canzoni strambe e scomode che scriveva, per quello spirito noir che lo induceva a cantare "dormirò solo quando sarò morto" e a piazzare sui suoi dischi un piccolo teschio con la sigaretta tra i denti (era da un bel mucchio di anni il logo dell'autore californiano). Ma più di ogni altra cosa mi mancano quelle ballate che mescolavano miele e sangue, petali di rosa e pallottole di buon calibro. Nessuno ne ha scritte di cosi belle. Canzoni meravigliose in salsa agrodolce che mi è difficile immaginare venir fuori dalla penna di qualcun altro.
Certi pensieri mi tornano su, ancora più su, ogni volta che il calendario dice 7 settembre. Come oggi.
Poi, per sollevare lo spirito penso anche che il 7 di un settembre molto più lontano (1936, a Lubbock, Texas) è nato Buddy Holly. Così il dispiacere si attenua, perchè senza Buddy Holly non avremmo avuto Warren Zevon e tanti altri suoi compagni di bevute e composizioni.
Infine, quando la luce del giorno inizia a calare, ogni sette di settembre, mi ricordo che devo rispondere a molti messaggini di auguri, perchè è anche il giorno del mio compleanno.
Lo farò ascoltando Mohammed's Radio di Zevon e True Love Ways di Holly, due tra le mie canzoni preferite, e pensando ai regali che vorrei per il 7 settembre del 2009:
un mondo più educato, governo e opposizione (meglio se a ruoli invertiti) che pensino meno al braccio di ferro e più ad unire le forze per farci vivere meglio, e - per finire - qualche uragano e qualche guerra in meno.
Basteranno dodici mesi?

venerdì 1 agosto 2008

ALANIS MORISSETTE: La mia storia d’amore andata a rotoli, le mie nuove canzoni. L’intervista.


Ti sbatti tra case discografiche, trovi il produttore che trasformerà i tuoi demo in milioni di dischi venduti, ci provi ancora e sono altri milioni. Poi ti fletti, vabbè, ma è naturale, vestendo comunque i panni di superstar. Con gli uomini, rispetto a You Oughta Know (“Tanti auguri a voi / ma dimmi, lei li fa i pompini al cinema come me?”) va sempre meglio. Trovi il tuo principe azzurro (Ryan Reynolds, attore, quello di Smokin’ Aces) e anche l’ispirazione dei tempi belli. Poi lui ti molla per una che canta Tom Waits con la grazia di un carburatore in difficoltà (si, è Scarlett Johansson, fascino e labbra, ma lasciamo stare I Wish I Was In New Orleans, ok?). Che fai, la insegui per il Sunset Boulevard e la prendi per i capelli, la biondina, o ci rifletti su?

Alanis Morissette ha trasformato le canzoni per Flavors Of Entanglement in un’altra confessione da viale dei cuori infranti. Ne è sgorgato un “relationship” album, uno di quelli tipo I’m Alive di Jackson Browne (la fuggiasca lì era Daryl Hannah) o Blood On The Tracks, Dylan che rimpiangeva la sua Sarah.
Ora è seduta accanto a me, così simile e così diversa rispetto a come la ricordo. Ha una messa in piega che è più Sarah Jessica Parker che Patti Smith, le sue gambe non sono sottili come quelle del cartonato del nuovo album ma il sorriso è quello, bello, di sempre. Appare quasi serena quando spiega come si fa a mettersi a nudo “dopo che ti hanno mollata”. Ma è anche del suo rapporto con il pianeta terra e con l’America di oggi che parliamo.

- Come vanno le cose?
Sono carica perché finalmente l’album è pronto. Posso andare in giro a raccontarlo e a cantarlo.

- Avresti proprio voluto, in questi termini?
Si scrive di tutto, di quel che ti appaga e di ciò che ti strazia.. Gli artisti vivono delle e nelle proprie canzoni. Non ce la faccio a nascondermi quando sto male o sono ferita. Così scrivo.
Molte canzoni c’erano già, alcune le ho riadattate al mio stato d’animo. Ero depressa e rabbiosa perché i discografici continuavano a rimandare l’uscita del disco e perché la mia storia d’amore era andata in frantumi.

- Non si corre, talvolta, il rischio di fissare sensazioni che poi passano e di non riconoscersi più nelle parole scritte?
Può accadere, ma se ti fai prendere da questo timore ti blocchi. Tutti sono là fuori a farsi i cavoli miei comunque. Internet è piena di foto col mio ex boyfriend e di storie inventate. Le mie canzoni dicono veramente come sto, rivelano i miei desideri di prima e le mie aspirazioni di oggi. Sono nuda, con le mie parole a raccontare tutto il processo del dolore, dall’inizio alla fine. Non potrei cambiare il mio pensiero su come è andata.


- La rabbia di Jagged Little Pill sembra lontana; si avverte il filtro dell’età e della saggezza che prima ti negavi. Incomplete dice di una donna che si è lasciata tanta fatica alle spalle e che cerca qualcosa, dei figli, per completarsi. Ha il passo di una canzone natalizia…
"Appunto. E’ venuta fuori così e rivela forse più di quanto volessi dire. E’ la forza della sincerità. Scrivi un pensiero, gli metti accanto della musica, arrangi il tutto, e tutto ha il sapore giusto".

- Citizen Of The Planet è tra i brani più “speziati”, tra i suoni c’è quello di una tabla, tutto va verso l’Oriente. C’è dell’elettronica ma si pensa ai “colori” dell’India.
"Amo gli arancioni e i marroni dell’India. Mi guardo intorno, è la cosa che mi viene più naturale. Se provi interesse verso l’ambiente e il mondo significa che ti interessa la vita, tua e degli altri. Da piccola andavo con mia madre alle mense dei poveri. Ho capito presto che c’erano delle differenze tra tutti noi. Non solo tra bianchi e neri".

- La musica in questo ti ha aiutato?
"Moltissimo. Sapessi che conforto e che stimoli mi ha dato Graceland di Paul Simon.
Come hai messo in pratica quegli stimoli nel quotidiano?
Negli anni ho sposato diverse cause. Donne, diritti degli artisti: ogni tipo di lotta. Adesso sono tutta per Reverb, l’organizzazione no-profit che guarda all’equilibrio ambientale".

- Al cinema, in Radio Free Albemuth, sarai una donna che un po’ ti assomiglia.
"Abbiamo girato a Los Angeles e dintorni. Il regista, John Alan Simon, ha voluto che interpretassi una cantante le cui canzoni mirano a far cadere il governo. Nella realtà non ho questo potere, sono più tranquilla. Ho smesso di cercare con ostinazione la felicità, accontentandomi della pace interiore".


- Cosa ne pensi di come Michael Moore ha raccontato voi canadesi in Sicko?
"Ho sentimenti contrastanti verso il suo lavoro. Mi piace che esalti il nostro sistema sanitario, poi penso che lo faccia unicamente per confrontarlo con quello americano e alimentare così l’odio globale verso il suo paese e mi irrigidisco. Un po’ ci strumentalizza. Negli Stati Uniti ci vivo, ho piede da una parte e uno dall’altra".

- Ma vi ritenete davvero frutto di “semi speciali”? Lo dici in una tua canzone, dove aggiungi di avere origini nelle “nevi francesi e ungheresi”.
"Parlo per me, in prima persona. Cerco di spiegare come mi sento. Un tempo non avrei mai usato quell’espressione, ero meno sicura di me stessa. La mia arte mi ha aiutato, anche se non mi considero certo una grande musicista, del livello di miei connazionali come Robbie Robertson e Joni Mitchell".

- Sarai moglie e madre?
"Un giorno, ma non presto".

Ermanno Labianca, per Rolling Stone #58, Agosto 2008.
Vai in edicola, e leggi anche di Coldplay, Amy Winehouse, Carla Bruni e Ray Davies.

mercoledì 30 luglio 2008

PAUL SIMON, LA SUA AFRICA E MOLTO ALTRO. Il concerto romano di un totem della musica pop.


Si fa davvero fatica a trovare, tra i viventi che scrivono la musica pop, qualcuno che possegga le doti di Paul Simon. Bastano, forse, solo le dita di una mano a contarli: Paul McCartney, Stevie Wonder, James Taylor, Billy Joel. Scendere per la strada dei Leonard Cohen e dei Randy Newman significherebbe infilarsi nell’imbuto dell’elite. Invece Simon resta lì tra quelli che sanno essere pop-olari nel senso pieno del termine. Lo vedi quando la sala si alza a tenere il ritmo di You can call me Al, replicando le movenze buffe che nel videoclip di allora furono di Chevy Chase e dello stesso autore. Lo intuisci quando Mrs. Robinson non si muove più come una teenager ma mostra i segni belli del tempo che è andato, eppure la platea ne segue la traiettoria nuova con la stessa pazienza che hanno i fanatici di Dylan quando Blowin’ in the wind ti passa davanti e te ne accorgi solo perché le parole sono rimaste le stesse. Ne sei completamente convinto quando le note di The sound of silence ci portano tutti in un'altra vita, più avventurosa e spensierata. Fa nulla che sotto la crosta e la cura degli arrangiamenti le canzoni di Surprise (l’album più recente del newyorkese) si scoprano con il fiato corto e camminino un po’ goffe tra tanta bellezza: la grandezza di Paul Simon si misura attraverso il valore di un repertorio che può anche accollarsi le Outrageous e le Father and daughter di turno senza che si registri – miracolo – un decremento della qualità complessiva.
Quello che poche ore fa ha raccolto a Roma l’ovazione e il tutto esaurito della Cavea, meraviglia a cielo aperto incastrata sotto ai tre imponenti auditorium coperti che completano il Parco della Musica, è un artista irreplicabile.


Piccolo come Danny De Vito ma al tempo stesso alto come un totem della musica leggera, Paul Simon ha pazientemente raccolto grazie al contributo del suo eccellente gruppo multirazziale di musicisti il meglio di quanto ha saputo darci in quarant’anni di musica. Che è oggi un generoso juke-box pronto a rovesciare in uno stile unico le tante diverse intuizioni che hanno attraversato una discografia davvero luminosa. L’ex Tom del duo Tom & Jerry (l’altro era un giovanissimo Art Garfunkel, si parla di anni Cinquanta) si è ricavato uno spazio inattaccabile, un’impronta riconoscibilissima, nella roccia di tante culture che è andato a stuzzicare negli anni. Oggi può accadere che nello stesso pezzo coesistano un certo urban jazz newyorkese e il folk irlandese sputato da un minuscolo pennywhistle che spunta tra le dita di un chitarrista, oppure che l’Africa tanto accarezzata ai tempi di Graceland (cinque stasera i pezzi da lì presentati) si fonda meravigliosamente con il Salsa di Late in the evening.
A mangiarselo con gli occhi, il piccoletto di The boxer, c’è anche Walter Veltroni, uno che alla buona musica, di ogni tipo, fa sempre largo nell’agenda e che in quell’agenda aveva segnato un giorno, reduce dall’ennesima missione in Africa, il buon proposito di trasferirsi “a fine carriera politica” nel Continente Nero per svolgere un ruolo sociale. Mentre l’ex sindaco già stringeva mani, lo show di Simon infilava un numero Zydeco con tanto di washboard sul palco a stendere un altro strato – questa volta la musica della Louisiana – sull’impressionante ricchezza sonora riversata sulle migliaia di presenti.
In due ore i fan più o meno illustri del songwriter americano, raccolti in uno scenario di insuperabile bellezza e funzionalità, hanno riabbracciato un artista e un repertorio che sono cari anche a chi non c’era.
Per rubare una frase a Boy in the bubble, forse non saranno più i “giorni dei miracoli e dello stupore”, non lo sono più per il mancato premier e per un pubblico dai buoni sentimenti (perché la passione per certa musica, in casi simili, può rivelare l’orientamento politico, o no?), ma una serata così, arrivata a placare l'afa e non solo, merita un posto duraturo nella memoria.

Thanks a Filippo De Orchi per le foto

giovedì 17 luglio 2008

ME AND BOBBY D, IO E BOB DYLAN / Un ricordo lungo trent'anni. E poi i Dire Straits, il Punk e la gioia di esserci, a qualsiasi costo.


Oggi mi regalo un ricordo che mi è molto caro. Anzi, lo spolvero. Ci pensavo un paio di giorni fa, il 15 luglio. Trent’anni, mi sono detto. Sono passati trent’anni da quando ho preso il treno per andare a vedere per la prima volta Bob Dylan. Era il 1978. Il ricordo, ancora vivissimo, mi serve per lasciare su carta una delle tante storie che un giorno, forse, raccoglierò in un libro chiamato “Sogni di rock’n’roll” (Luciano Ligabue, do you mind?). Storie vere, che viste oggi attraverso gli occhi del tempo che scorre paiono sogni.
1978, dunque. Due amici, due grossi sacchi a spalla, un solo treno, ma per Londra, mica un posto qualsiasi. La vecchia Londra il caro Bob l’aveva lasciata nel 1966, suonandoci, e non ci era tornato più dopo quel brutto incidente in moto in sella a una Triumph Bonneville.


Mancava dall’Europa da dodici anni, cinquanta lunghissime stagioni rock in cui era successo di tutto. In ordine sparso: la morte di Hendrix, Woodstock, lo scioglimento dei Beatles, Elvis che "lascia il palazzo" definitivamente ed anche, per restare dalle parti di Oxford Street, l’avvento del Punk. Per alcuni era l’estate di “Darkness On The Edge Of Town”, di "Night Moves" dell'alta temperatura Disco di “Saturday Night Fever” e di “Miss You”, che faceva ballare anche chi amava il rock. Per altri la "febbre" arrivava dai dischi dei Clash, dei Damned e dalle "truffe rock’n’roll" dei Sex Pistols. Erano quelle le punte di diamante di un movimento fatto per restare, non una moda passeggera. Appena più sotto, ma ugualmente grandi, gli Sham 69, Cherry Vanilla, Eddie And The Hotrods (che bella la loro versione di “The Kids Are Alright” degli Who) e tanti altri valorosi casinisti.
Victoria Station, il porto di arrivo, ma soprattutto la suburbia londinese che io e il mio amico potevamo permetterci, facevano un po’ paura. Tutte quelle creste, la pelle nera dei pantaloni, i visi incazzati e l’intera l’iconografia Punk digerita attraverso i giornali e le stupide pubblicità delle case discografiche di allora (che stupide sono rimaste nel tempo, fino a morirci di stupidità) mettevano un po’ paura a due minorenni che ventiquattr’ore prima di salire su quel treno erano sul prato di Villa Ada, a Roma, ad assistere ad un concerto gratuito di Edoardo Bennato.
I miei occhi avevano già visto l’America, nel 1974, e i miei timpani avevano già registrato il suono delle sirene della polizia che a Boston e New York non smettono mai di farti credere, soprattutto di notte, che dietro l’angolo abbiano ammazzato qualcuno. Per le strade di Londra però viveva una tensione mai provata prima. Scary, but really good. Dopo un po’ quei tipi con le lamette agganciate ai pantaloni e le spille da balia infilate nelle guance diventarono parte dell’arredamento, così giù, sereni, a dare sfogo al programma scritto per bene su un foglio di carta, durante quel viaggio interminabile su rotaia con sosta parigina.


Un giorno eravamo a scattare fotografie al 90 di Wardour Street, davanti al glorioso Marquee, che avevamo eletto a tappa irrinunciabile del primo pellegrinaggio rock delle nostre vite. Porte aperte, nessun controllo, era pomeriggio, l’ora giusta per intrufolarsi e sentire il soundcheck della band che avrebbe suonato la sera. Cazzo che bravi, e che tocco sulla Stratocaster quel tipetto smilzo che a giudicare dai pochi capelli deve essere al termine della carriera. Sembra di sentire Bob Dylan con Eric Clapton alla chitarra elettrica. Una premonizione, visto che a giorni ci aspetta il concerto di Dylan nel Surrey, con Clapton fresco di “Slowhand” (l’album con “Cocaine” e “Wonderful Tonight”), Graham Parker and the Rumours, Joan Armatrading e altri a fare da apripista.
Una premonizione o una incredibile botta di culo per i due ragazzini finiti lì per caso, fate voi. Noi eravamo lì a raccogliere qualche briciola della gloria che quel locale aveva messo in scena negli anni Sessanta. Ci bastavano quelle, non avremmo osato chiedere di più. Quando rivolto al tipo smilzo, il chitarrista dagli occhi buoni e celesti, feci “come si chiama la tua band?” non colsi il nome al volo. Per avere più chiare quelle due parole dovetti strappare la copertina, vuota, del loro primo album (altro che fine carriera) dal muro dove era spillata, insieme ad altri esemplari tutti uguali di copertina destinata ad entrare nella storia del rock: ecco, Dire Straits.


“Tornate stasera, vero?”, incalzò il chitarrista. “E come no!”
La sera concerto strepitoso, di quelli da tornare a casa e convincere tutti a comprare l’album degli ennesimi sconosciuti che “guarda, sono fortissimi, li ho visti a Londra”! Chissà se Mark Knopfler avrebbe mai immaginato che quei due ragazzetti spaesati, per giunta italiani, una volta uscito l’album anche in Italia avrebbero messo in atto una specie di porta a porta per contribuire all’ascesa del suo sconosciuto gruppetto di rock blues.
La notte del 14 luglio io e il mio amico Mauro (un imbattibile incrocio tra Riccardo Cocciante e Leo Sayer) eravamo di nuovo a Victoria Station, ubriachi di musica e di tutte le possibilità che vi girano intorno. Meno timorosi rispetto all’arrivo, anzi travolti dall’eccitazione di vedere l’uomo di “Mr.Tambourine Man” dal vivo, a pochi metri, salimmo sulla carrozza più vuota, per recuperare qualche ora di sonno in vista di un Festival che non sarebbe stato proprio una passeggiata.
Stringevamo in mano due bei biglietti gialli, conquistati giorni prima al prezzo di sei sterline e una interminabile fila a Shaftesbury Avenue, proprio quel viale di
cui i Dire Straits cantano in “Wild West End”.
Eravamo ingenuamente convinti di dovercela vedere con l’affluenza di un’arena, visto che l’evento – poi diventato uno dei raduni più celebrati della storia del rock’n’roll – veniva presentato dai manifesti appesi ai muri della città come un “picnic nel parco”. Ci attendeva un aeroporto, proprio un aeroporto, e una mare di gente.


Scesi nella cittadina di Camberley in un orario improponibile, io e il mio amico decidemmo che l’unica cosa da fare era incamminarci verso il venue, come lo chiamano lì, l’area del concerto insomma. “E’ l’alba, al massimo ci buttiamo su un prato e aspettiamo il pomeriggio”. Ci avevano già pensato in alcune centinaia di migliaia a buttarsi sul prato prima di noi. In nostro favore giocò il fatto che eravamo naturalmente sprovvisti di stupefacenti, quindi lucidi abbastanza per scavalcare corpi, tende canadesi e sacchi a pelo.
Prime file conquistate mentre tutti ancora dormivano. Culo e furbizia, ed anche quella fame di grandi eventi che ti porti dentro se arrivi da un posto che non è proprio l’Impero del Rock.
Quando tutti furono svegli e pronti - ready to go - noi eravamo lì a pochi metri dal palco, con gli speakers che suonavano i Dire Straits e “Sultans Of Swing”. Avrei finalmente potuto fotografare Dylan anche io, con la mia macchinetta fotografica inguardabile, una Ferrania Veramatic colore lilla e giallo, con mini flash incorporato, roba che chissà se mia madre regalandomela aveva immaginato che l’avrei usata per immortalare Mark Knopfler, Bob Dylan e Eric Clapton.


Concerto strepitoso, di quelli da tornare a casa e dire a tutti “guardate che Bob Dylan è vivo e vegeto, se l’è cavata bene dopo il salto dalla moto e il suo nuovo disco non è male, anche se quel sassofonetto in “Changing Of The Guards” scimmiotta un po’ la E Street Band”. Non sarebbe servito, l’appello, perché quella era roba da prime pagine, altro che scoperta dell’America.
34 canzoni solo il set di Bob Dylan. Un 15 luglio da non dimenticare mai più, con Bob e Clapton insieme sul palco a chiudere la serata di uno dei giorni più faticosi della mia giovane vita da aspirante rock’n’roller, tra nuvole di hascish (buone per stendere una squadra di calcio ben allenata) e ragazze in topless che da noi manco al cinema.
Dopo certe maratone si cammina a un metro da terra, travolti – mica è un’esagerazione – dalla sensazione di aver infilato nello zaino qualcosa da custodire gelosamente e da raccontare trent’anni dopo. Ai propri figli, a chi capita, a chi può capire.
Oggi sono qui, proprio a trent’anni e due giorni di distanza da allora a rigirarmi tra le mani la copia ingiallita di un Melody Maker acquistato ore dopo l’evento. Beh, se c'è chi può vantarsi di avere avuto la sua foto sulla copertina di Time e Newsweek nella stessa settimana, e Madonna è finita negli anni sulla copertina di oltre mille riviste, io – nient’altro che il ragazzino che prese il treno giusto, anzi due – ho legato due sogni tra loro: vedere Bob Dylan e finire, in un modo o nell’altro (se dopo tanto sbattersi non diventi un rock’n’roller con la chitarra elettrica, almeno la celebrazione come “pubblico”, che diamine!) sulle pagine del Melody Maker, Bibbia rock che oggi non c’è più, come tante altre cose.
Scorro quelle pagine ingiallite che un giorno provocarono in me un sussulto di quelli da lasciarci le coronarie e mi rivedo quasi bambino, con il naso all’insù, proteso forse verso quel mondo che allora già sognavo e che ho finito con l’attraversare in mille modi, su mille barche e barchette diverse.
Sono lì, proprio sotto la foto di Dylan che duella con Clapton a colpi di Fender Stratocaster, accomodato tra il pubblico delle prime file, parte integrante di una folla oceanica che quella notte, dopo “The Times They Are A-Changin’”, lasciò fuochi e cartacce, birre e coperte sudice in una tale quantità da rendere necessaria una settimana di lavoro per riportare tutto allo stato originale.


Mostrerò un giorno la foto, ancora ben conservata, alle mie figlie, raccontando loro che alle prime grandi passioni ed emozioni della vita, comunque e dovunque tu le provi, devi concederti con generosità e abbandono, e osservarle, proteggerle a ogni costo. Se andrà bene ti porteranno lontano, illuminandoti la strada, altrimenti ti seguiranno comunque, e rimarranno tra le cose più belle da custodire.


Nella mia vita privata e professionale ho messo insieme una bella striscia di ricordi, un bel po’ dei quali legati a Bob Dylan, che dopo quel 15 luglio 1978 avrò visto esibirsi almeno una ventina di volte. Tra i più cari c’è la memoria di quando a Roma, nel 1998, scortai una Fernanda Pivano già ottantunenne fino al camerino dell’imperturbabile Bob, scendendo con lei i gradoni del Palazzo della Civiltà e del Lavoro tanto lentamente da temere che lui si sarebbe stancato di aspettarci, anche se i due non si incontravano da trent’anni. O quando assistetti dal palco a un concerto di Van Morrison, che stava aprendo per Dylan in un acquitrino sotto agli alberi bolognesi. Accanto a me c’era uno strano tipo: stivali Frey, un dondolio del capo quasi inquietante, vocabolario tutto suo mentre parlava da solo sotto al cappuccio della sua felpa grigia. Mi girai verso quella figura misteriosa per scorgerne il viso: era Bob Dylan che a modo suo cercava di stare dietro al repertorio di Van The Man. E poi, ancora, il momento che sogni per una vita sentendoti un po’ fesso perché ti pare che va a capitare proprio a te, che eri al Blackbush e hai pure avuto la foto sul giornale; allora, sei nell’ascensore con Bob Dylan, poi imbocchi un corridoio, sei in una salottino con lui e dieci giornalisti perché ti occupi dei suoi rapporti con la stampa. Poi lui vuole fare un break di dieci minuti prima di ricominciare a parlare del suo disco “Love And Theft”, quindi sei nel 2001, in quel futuro che sembrava così lontano mentre guardavi a naso all’insù il cielo plumbeo del Surrey. A un certo punto Bob Dylan ti conduce nella sua stanza da letto per due minuti che sembrano interminabili, centoventi secondo soltanto, in cui tu vorresti chiedergli mille cose e invece è lui a chiederti “come diavolo funziona ‘sto videoregistratore?”.
Niente sogni, tutta vita vera, che mescola passione e professione: è quello il vero sogno. Vita tribolata, non sempre facile - mica è tutto oro quello che luccica - ma sempre sorprendente perché se resisti e non scendi mai dal treno potrai attenderti qualsiasi cosa alla prossima fermata.
Ma nessuna delle circostanze più recenti può battere il ricordo che è fermo a pagina 31 di un foglio da 15 pence e su quel prato dove ho lasciato molti semi sperando che diventassero fiori.

mercoledì 11 giugno 2008

I TESTI DI BRUCE SPRINGSTEEN: Talk about a dream 1973-1988


SPRINGSTEEN. TALK ABOUT A DREAM
Testi commentati 1973-1988 (Arcana)
di Ermanno Labianca

Con il tour di Magic in corso che sta facendo registrare numeri da capogiro come ai tempi di Born In The U.S.A. e The Rising, e che è atteso a Milano il 25 giugno prossimo, Bruce Springsteen e i suoi testi sono più vivi che mai.

Sta per avvicinarsi l’estate in cui uno dei suoi album più epici, Darkness On The Edge Of Town (quello che fece seguito a Born To Run), festeggerà il trentennale, con tanto di celebrazioni e presumibilmente un’edizione rimasterizzata ed “expanded”. Le più belle canzoni di quel disco e buona parte del catalogo di quegli anni “giovani” costituiscono ancora l’ossatura dei live show di Springsteen con la fedelissima E Street Band.

Talk about a dream è l’occasione per il suo autore Ermanno Labianca, i cui libri sul Boss sono ormai un appuntamento fisso in libreria, e per chi riempirà lo Stadio Meazza, di fare un percorso a ritroso e tornare ad analizzare, una per una, le canzoni che compongono la prima fase di una carriera che non ha cedimenti.

Da Greeting From Asbury Park, NJ a Tunnel Of Love, ogni brano è stato riletto, passato al setaccio, tradotto, analizzato, riassaporato anche alla luce di ciò che è venuto dopo. I primi quindici anni dello Springsteen songwriter, i suoi primi otto album (ma ci sono, in questo lavoro veramente completo, anche le b-side dei 45 giri e le inedite cantate in Live/1975-85) riprendono vita tra riflessioni, ricordi, analisi di un autore che segue l’artista americano da sempre, attraverso articoli, libri, progetti laterali (anche un album tributo, For You) e una instancabile osservazione di tutti i tour.

Scrive l’autore
“…quando ho accettato di sedermi, di nuovo, di fronte alle “cento” canzoni di Bruce Springsteen (macché, sono molte di più), per tradurle, spiegarle, amarle di nuovo, l’ho fatto per riappropriarmi di qualcosa che sento mio. È quel sentiero che ogni tanto amo percorrere a ritroso, come il protagonista di Long Walk Home. Che ha visto un bel pezzo di vita passare davanti ai suoi occhi, molte cose, e volti, cambiare, eppure torna davanti alle botteghe di una volta, infila dentro la testa per capire chi c’è e chi è andato via. E un processo bello e doloroso. In una parola: inevitabile.
Ho ripassato con attenzione melodie che credevo di conoscere a memoria e testi che ritenevo, sbagliando, avessero avuto tempo a sufficienza per rivelarmi tutto. Ciò mi ha condotto alla pagina uno di un grande racconto che ho visto crescere una canzone dopo l’altra. Canzoni che naturalmente solo mie non sono.
È stato bello scoprirle cambiate, adeguate allo scorrere del tempo, così simili – oggi più simili – al percorso di tante persone che conosco. In alcuni casi anche al mio. È stato utile confrontare ognuna di quelle storie con le tante che sono arrivate dopo”.

“…si è capito da tempo che è un errore mescolare rock’n’roll e letteratura, che una canzone non può dirsi poesia tanto enorme appare la differenza tra quelle forme di espressione. Esistono testi di canzoni che si sostengono a fatica senza la musica. Poesie che acquistano più valore se lette da voce autorevole. Le parole di certi romanzi non hanno bisogno delle immagini che spesso il cinema gli costruisce intorno. Strade, quella del cinema, della letteratura, della musica e della poesia che non devono necessariamente sovrapporsi, ma quando si incrociano provocano un’emozione irripetibile”.

“…Springsteen è un crocevia da cui passa di tutto. Vi transita la letteratura, ma anche West Side Story, l’Ed Sullivan Show, il cinema di Sergio Leone, John Ford e Terrence Malick (che ha alimentato la rabbia e la passione di Nebraska), l’amore proibito tra il killer Jerry Lee Lewis e la sua giovanissima cugina. E poi, ancora, la cultura dei Drive In e dei 45 giri, i drammi d’amore scritti e musicati da Roy Orbison, i personaggi immortalati dalle foto di Robert Frank nel suo The Americans, le battaglie politiche di Martin Luther King, Pete Seeger e Woody Guthrie. E’ la letteratura del rock’n’roll”.

In 400 pagine, Talk about a dream (18,50 euro) contiene la “rabbia giovane” di Bruce Springsteen, i personaggi, i sogni, l’amore, le strade che hanno animato le sue prime “cento” canzoni.
Le basi dell’epica springsteeniana sono qui.

venerdì 18 aprile 2008

Danny Federici 1950-2008


Danny,

what a shock.

You were the Italian among the Italians of the E Street Band. Your accordion was a magic within the magic.

Never really knew you well, but that afternoon in Genova, when I met you guys backstage, while you were with Max, I came to you, straight, and asked to play Loose Ends.

Kinda rare, kinda impossible, I thought. You just said ”let me give it a try when I see Bruce”.

Not only the E Street Band played Loose Ends that night on stage, but you, Roy and Nils played one of the funniest moment ever for us Italian crowd: the three accordion players in the land of the three tenors.

And Bruce’s mom and aunt danced their neapoletan roots off next to all of you guys.

Rest in peace Danny. We all miss you so much, but I can see you now dancing with your shirt open like a latin lover along the shore.

And that makes me feel better.

mercoledì 2 gennaio 2008

Fai lo scroll verso il basso, trovi la playlist di Radio Nowhere che sta suonando e si parla anche di K.ROWLAND, RAMONES, BEYONCE' e BEN HARPER.

THE THRILLS: California Dreamin' per adolescenti


All’esordio volevano essere i Buffalo Springfield o gli Eagles di Dublino. In This Year, il secondo pezzo del loro terzo album, i Thrills sembrano i Cure di In Between Days. Giusto cosi, perchè non basta avere il cuore a Los Angeles e scrivere canzoni con titoli esplicativi della loro passione (Big Sur, Your Love Is Like Las Vegas, Hollywood Kids, Santa Cruz) per essere subito Stills e Young o Henley e Frey (nessuno nato nel Golden State pero è come se lo fossero). Ma Conor Deasy e compagni ci piacciono sempre, perchè sono freschissimi, hanno suoni giusti, belle copertine e un entusiasmo contagioso. Se il mercato avrà pazienza e i boys sapranno attendere che Long Forgotten Song si trasformi a mezzanotte nella loro Take It Easy ne vedremo delle belle. California dreamin’ per adolescenti.

Ermanno Labianca, da Rolling Stone #51, gennaio 2008