mercoledì 19 agosto 2009

FERNANDA PIVANO (1917-2009): l'ultima traiettoria di una "shooting star"



“Seen a shooting star tonight
And I thought of you.
You were trying to break into another world
A world I never knew”. (Bob Dylan)

L’estate, che strana l’estate. L’estate è di brutte partite di calcio dalle trame ancora acerbe, e di morti – almeno quest’anno – che ti sfiniscono quanto il caldo. Ho recentemente postato a fatica in questo blog dei brevi ricordi di Michael Jackson e di Willy De Ville, due tipi diversi tra loro, diversi che di più non si può. Ma a ognuno, tanto all’indecifrabile Jacko quanto a quel goloso di vita che era De Ville, è legato un pezzo della mia vita, un ricordo personale, un momento che – come loro – non tornerà. Non ho fatto in tempo a prendere atto della morte di quel grande della chitarra che è stato Les Paul (dove sarebbero oggi Jimmy Page e tanti altri senza lo strumento, la Gibson Les Paul, che lui ha plasmato assegnandogli il proprio nome?), che un altro pezzo di storia della musica e della letteratura se ne va. Due vecchietti, si dirà, “avevano dato” – 94 anni lui, 92 lei – ma che perdite colossali! Note e parole che a dispetto della morte resteranno aggrappate a questa vita.

Fernanda l’ho conosciuta. E’ stata una di quelle cose belle, stella luminosa e improvvisa, che ha attraversato il mio cielo quando avevo l’impressione che lassù fossero solo nuvole. Nel grigiore di anni in cui mettevo al servizio della discografia (era una major, di quelle che ancora resistono) la mia straripante passione per la musica e uno spesso inutile entusiasmo, poteva accadere di trascorrere qualche ora con Fernanda Pivano, quella che ha tradotto Hemingway e reso più comprensibili dalle nostre parti le prime canzoni di Bob Dylan.

Fa niente che dovevo sobbarcarmi imbarazzate telefonate per chiedere ai giornali spazio per improbabili e cinguettanti star. Fa nulla che pensavo e dicevo che Morgan era un talento incompreso (eravamo in pochi, ma ci credevamo) e dall’altra parte – che poi in realtà era o doveva essere la “mia” parte – si facevano spallucce. E pazienza se non si rispondeva più al telefono agli artisti il cui singolo non era piaciuto alle radio. Un giorno arrivava nella tua vita Fernanda Pivano (o Fossati, o Dylan, o qualcun altro) e il cielo cambiava colore.

Succede – passo al presente, per sentirmi di nuovo un po’ lì, con lei – che mi chiamano i tipi della Minimum Fax. Hanno assoldato la Pivano per alcuni lavori editoriali, in più lei deve scrivere per un quotidiano qualcosa su Dylan, che è di scena a Roma, tra i marmi bianchi del Palazzo della Civiltà e del Lavoro. Dieci anni fa, o poco più. Me la affidano, o quasi. Lei è puntuale, la scorto giù per le scale, rallentiamo per un saluto a Francesco De Gregori, poi dritti fino al camerino di Bob Dylan, il “suo” Bob, che non vedeva da anni. Durante lo show lei resta seduta, e immobile, a viaggiare con i ricordi. Alla fine mi racconta brandelli di vita, scorci eccezionali di un mondo che non vedo più, e mi chiede se l’indomani potrà disturbarmi per chiedermi qualche dettaglio del concerto e per dettarmi, successivamente, il pezzo che dovrà mandare al giornale.

Quando mi chiama è stanca ma affabile, dice che la musica la tiene viva e che ogni dieci libri prova a comprare un disco ma non sa mai dove dirigersi. Non la rivedrò più, anzi la scorgerò in un video di Ligabue, “Almeno credo”, dove lei sarà il più prezioso dei cammeo, incastrata tra parole intelligenti (“credo nel rumore di chi sa tacere”) e qualche citazione Sixties (il mitico furgone Volkswagen e quei cartelli a farci leggere il testo, come accadeva in “Subterranean Homesick Blues” di Bob Dylan).

Tra quarantott’ore sarò a Cleveland, dove al Rock’n’Roll Museum sta per iniziare un lungo weekend di celebrazioni per il quarantennale di Woodstock. Sarà la festa di quell’America che è arrivata ed è stata compresa in Italia grazie alle sapienti e appassionate traduzioni di Fernanda Pivano. Ora che i suoi occhi, quegli occhi che si sono incontrati con quelli di Cesare Pavese, di Jack Kerouac e di Fabrizio De Andrè, si sono chiusi per sempre mi piace ricordarla con un suo limpido e speranzoso commento di metà anni Sessanta colto dopo un concerto di Bob Dylan, del “suo” Bob Dylan:

“Che emozione, che orgoglio, che felicità quella sera a San Francisco, in attesa del concerto di Bob, quando Allen (Ginsberg) mi aveva portato in un bar, davanti a un piccolo jukebox ad ascoltare ‘Mr. Tambourine Man’. Ginsberg mi aveva spiegato che finalmente il loro, il nostro messaggio, era esposto senza poter suscitare interventi della censura, e i nostri sogni sarebbero entrati nei jukebox di tutto il mondo. Le nostre speranze sarebbero state improvvisamente conosciute da tutti, e le nostre illusioni proposte a tutti”.

giovedì 13 agosto 2009

ERIC CLAPTON E STEVE WINWOOD: "Live from Madison Square Garden", il disco dell'anno?


I grandi dischi del rock’n’roll – “Pet Sounds” dei Beach Boys, “Revolver” dei Beatles, l’unico dei Blind Faith, “Transformer” di Lou Reed, “Born To Run” di Springsteen, “London Calling” dei Clash, “The Joshua Tree” degli U2, “Murmur” e "Automatic For The People" dei Rem e molti altri – sono un’anfetamina per chi ascolta certa musica da sempre. Ti tengono sveglio e vivo, nella speranza che miracoli del genere possano accadere di nuovo. Quanto ciò sia difficile è purtroppo sotto gli occhi e negli I-Pod di tutti. Stracolmi, questi ultimi (almeno quelli di chi appartiene alla mia generazione), di brani pescati da compilation, ristampe e dal meglio che il classic rock ha offerto e continua a offrire. Discorso di parte – si dirà – ed è vero, ma in questi mesi in cui l’appartenenza a qualcosa è identità urlata – si appartiene alla schiera di lettori di “quel” giornale, si cerca conforto in “quel” Tg, ci si guarda cercando di cogliere “quel” dettaglio che confermi la sensazione di assomigliarsi in qualcosa – la musica non può sfuggire alla regola: è una certezza, un marker che segnala i codici della nostra identità, o di quel che resta in questo diluvio di incertezza.


Un amico mi ha “prestato” il live di Eric Clapton e Steve Winwood perché non ce l’ho fatta ad aprire i pacchetti arrivati da Amazon: sono in vacanza! Attraverso un rapido passaggio dal cd al pc portatile, queste canzoni sono finite con mia grande sorpresa nel mio nuovo cellulare. La sorpresa ha a che vedere con il fatto che pur se gestisco con sufficente disinvoltura questo blog dovunque io mi trovi, resto pur sempre uno che guarda con sospetto agli articoli sulle nuove tecnologie, uno che piuttosto che leggere il libretto di istruzioni del nuovo hard disk recorder pagherebbe la stessa cifra investita per la prodigiosa macchina. Uno, insomma, che fa un sorriso di approvazione ogni volta che legge il titolo del blog “Torno ai vinili” del dirimpettaio, di rete e di musica, Maurizio Pratelli e che da anni respinge ostinatamente le richieste di acquisto della propria collezione di bootleg a 33 giri di Bruce Springsteen sebbene prenda polvere a tre metri dal pavimento. Avrete capito il soggetto, ma se siete arrivati fin qui, anche perché attratti dalla locandina in stile “anni Sessanta psichedelici”, siete abbastanza strutturati per leggere di due sessantenni inglesi che hanno attraversato la storia del rock riportando il blues in America.

“Live From Madison Square Garden”, approdo newyorchese di un progetto con tutte le caratteristiche del “cash-in” (“facciamo cassa”: è andata così ai tanti Who-reunion tour, è pane quotidiano – e che pane! - quando vanno in giro gli Stones, dicono che Springsteen stia prendendo quella deriva ogni volta che agita le ali della E Street Band), è un disco di spaventosa coesione, talmente bello nel suo sprizzare classic rock da far impallidire ogni jam band che calchi oggi i palchi e ogni formazione che provi a raggiungere quell’equilibrio tra espressività rock-blues e forza del repertorio che solo gli Allman Brothers possono ancora permettersi. Con simile perizia ci si può anche arrivare a suonare anche se non ci si chiama Clapton e Winwood (ma provateci voi, poi ne riparliamo, pur contando che si tratta di slowhands, tanto sulla chitarra Stratocaster quanto sull’organo Hammond B3), ma sembra davvero impossibile, al giorno d’oggi, mettere insieme tante buone canzoni per fare un concerto di pezzi originali. Eh già, perché a parte il largo omaggio a Jimi Hendrix (3 i pezzi, e come non ricordare che anche nella “Voodoo Chile” originale c’era Winwood all’organo) qui viene riscritta una storia quarantennale che è quasi tutta dei protagonisti di questo preziosissimo live. Una storia che dai Bluesbreakers di John Mayall e dallo Spencer Davis Group, passando poi per i Cream, i Blind Faith, Derek and the Dominos e i Traffic è marchiata Winwood o Clapton. Difficile trovare due musicisti che abbiano totalizzato insieme tante esperienze basilari nella storia del rock e che da solisti abbiano raggiunto gli stessi vertici di popolarità toccati da dischi come “Slowhand” (Clapton) e “Arc Of A Diver” (Winwood).


Il bello è che non è qui nemmeno il caso di storcere il naso come si fa di fronte a prodotti del genere, e a nulla serve osservare che negli anni Duemila Clapton non ha fatto altro che unire le forze sue con quelle degli altri (l’album con B.B.King, la fugace reunion dei Cream).


Queste canzoni, il loro amalgama, la piacevolezza con cui tutto ci arriva, quel senso di storia che ti prende alla gola e poi ti mette al tappeto, tutto rende cd e dvd di “Live from Madison Square Garden” una caldo rifugio di vintage rock dove tutto funziona a meraviglia (basti sentire come ci sta bene “Forever Man”, che pure arriva da un Clapton che ammorbidiva il blues nel pop). Tra gemme assolute come “Presence Of The Lord”, “Glad”, “Well Alright”, “After Midnight”, “Can’t Find My Way Home” e “Dear Mr. Fantasy”, ed altre eccellenti riproposizioni come “Cocaine” e “Georgia On My Mind” non avrebbero sfigurato un paio di pezzi del Winwood solista d’alta classifica (“While You See A Chance”?), ma solleveremmo inutilmente la questione del pelo e dell’uovo.

Disco dell’anno, va scritto osando un po’, senza remore né vergogna, anche se mette tristezza sentenziarlo nel giorno in cui muore Les Paul, l’uomo che ha scritto la storia della chitarra elettrica, quindi anche di Clapton.

sabato 8 agosto 2009

HEART AND SOUL: Addio a Willy De Ville


Stava male, si sapeva. Ma l’sms spuntato ieri sera sul mio cellulare è arrivato prima del previsto: “E’ un brutto giorno per la nostra musica: è morto Willy De Ville”. Parole scritte da un amico, con sincero dolore. Ora ho il mare davanti e i monti alle spalle, in mano una copia di Repubblica che ufficializza il decesso e tra le dita un fragile collegamento a Internet che non mi consente di girare troppo per il Web. C’è poco da girare, basta la memoria.
Wille De Ville è quei tacchi che atterrano sul mio tavolo del Savoy (non c’è più, erano i primi anni Ottanta newyorchesi) facendo vibrare i bicchieri. E’ quello sguardo tagliente che mi ha raggiunto da tanti palchi italiani (ce lo siamo goduto davvero, il buon Willy!). E’ quei dischi che hanno flirtato col punk e col rhythm’n’blues ("Coup De Grace": chi non ce l'ha si affanni ora su Amazon), che hanno rasentato il pop (“Miracle”, con Mark Knopfler: che bellezza!) e percorso le strade di New Orleans. E’ quegli angoli di Manhattan dove si parla spagnolo, ne succedono di tutti i colori e le ragazze di nome Rosita camminano al ritmo di Tito Puente.

E’ una musica scritta sempre con amore, anzi con “heart and soul”, dovunque si trovasse lo studio di registrazione in cui veniva prodotta. Willy De Ville è in quelle giacchette strette dell’epoca Mink De Ville (la sua band, quasi una E Street Band con sala prove ad Alphabet City anziché nel New Jersey) e nella trasandatezza un po’ piratesca degli ultimi anni. E’ “Maybe Tomorrow”, è “Could You Would You”, è “Cadillac Walk”, è “This Must Be The Night”, è ”Teardrops Must Fall”, è "You Better Move On", è la migliore “Stand By Me” dopo quelle di Ben E.King (l’originale) e di John Lennon. E’ tutte queste canzoni che ricordo in ordine sparso e che dovrò farmi bastare per un sacco di tempo. Perché, come ha scritto il suo ufficio stampa, “Willy è andato a trovare Jack Nitzsche e Johnny Thunders” (ovvero un sagace mescolatore di suoni e un altro ragazzaccio del rock’n’roll - vedi: New York Dolls). Gente giusta a tenergli compagnia nel silenzio eterno, che tanto silenzioso – immaginiamo – non sarà.

Willy De Ville, che aveva solo cinquantanove anni – 59, come una buona annata della Cadillac - ha attraversato oltre trent’anni di carriera senza mai uscire troppo allo scoperto, senza smettere quasi mai gli abiti del cult artist ma lasciandoci canzoni che solo lui sapeva confezionare in quel modo. Canzoni che hanno infiammato il Bottom Line o l'Olympia allo stesso modo in cui infiammavano, quando giravano meno soldi, i palchi e i festival di provincia. Ci è piaciuto tanto, Willy, anche per la sua unicità, e ora ci mancherà molto. C'è davvero poco da aggiungere.

lunedì 20 luglio 2009

A ROOM AT THE TOP



I got a room at the top of the world tonight
I can see everything tonight
I got a room where everyone
Can have a drink and forget those things
That went wrong in their life

I got a room at the top of the world tonight
I got a room at the top of the world tonight
I got a room at the top of the world tonight
And I ain't comin' down, I ain't comin' down

(Tom Petty)

giovedì 16 luglio 2009

LONG WALK HOME - i testi commentati di Bruce Springsteen, 1992-2009




Eccomi, a un anno esatto di distanza. Di nuovo in libreria. Questa volta al settaccio ho passato tutto quel che è stato dal 1992 a oggi. Se fate in tempo, portatevi queste riflessioni nei tre stadi italiani in cui si esibirà Bruce Springsteen. Vi terranno buona compagnia. Il libro è uscito oggi.

Si intitola SPRINGSTEEN. LONG WALK HOME - test commentati 1992-2009 (413 pagine). Lo pubblicano i tipi di Arcana.

Il testo riportato qui sotto è un estratto dall'introduzione.


TOGETHER THROUGH LIFE, "insieme attraverso la vita" (ho rubato il titolo, bellissimo, al nuovo Dylan). Le canzoni "recenti" di Bruce Springsteen.

E’ che a noi ci hanno fregato gli anni Settanta. E tutta quella irripetibilità che abbiamo scambiato per un invito a replicare. Rimanendoci poi male perché le cose non sono state più così. C’erano i film giusti e i dischi perfetti, quelli con le due facciate e un numero sovente ineccepibile di canzoni. C’erano "Late For The Sky" e "Running On Empty", "Hejira" e "Tapestry", "Harvest" e "After The Gold Rush", "Transformer" e "Ziggy Stardust", Lou e David, i Rolling Stones di "Sticky Fingers", "Exile On Main St." e "Goats Head Soup". I Beatles non più, ma Lennon scriveva "Imagine" e McCartney registrava "Band On The Run".

C’erano canzoni bellissime come "Werewolves Of London" e "Sweet Home Alabama" che Kid Rock trent’anni dopo avrebbe fuso in una ("All Summer Long") perchè ormai si fa questo e altro. C’erano gli Eagles nel lusso dell’Hotel California e i primi Chelsea Hotel del Punk. Erano anni in cui le trasmissioni televisive avevano le sigle e al cinema capitava che "Amoreena" di Elton John, tutta intera, venisse sincronizzata sulla sequenza iniziale di “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, con Al Pacino. In quell’estate del 1975 a New York, quella New York, girava uno Springsteen ancora wild & innocent: aveva la barba e appena l’avrebbe tagliata sarebbe diventato uguale ad Al Pacino. In cinque anni registrò il meglio che potesse registrare: "Born To Run", "Darkness On The Edge Of Town" e "The River" (ne abbiamo parlato nel primo volume: Talk About A Dream). Poi arrivarono gli anni Ottanta. Poi i Novanta. Poi il Big Bang del 2K.

Eccoci qua, a dire sempre che era meglio prima senza accorgerci che Springsteen ha appena completato il suo quarto decennio di registrazioni e che è nella logica delle cose che i primi due abbiano, visti da qui, un’altra marcia. A me viene voglia di pensare che i tanti under 30 che riempiono oggi gli stadi e le arene dove suona Bruce Springsteen non debbano necessariamente sapere tutto questo. Se ci si sono sporcati qualche sera il muso magari è meglio, ma i loro anni Settanta è giusto che se li cerchino tra l’energia di "The Rising" e i chiaroscuri di "Devils & Dust". Per poi andare in giro a ripetere, ossessivamente, che come si stava nei Duemila non si è stati più.

- Ermanno Labianca

venerdì 26 giugno 2009

AIN'T NO SUNSHINE: è morto Michael Jackson


Michael Jackson me lo voglio ricordare con la faccia che aveva quando l’ho conosciuto. Accadeva nel mio primo viaggio americano, anno 1974, in un’America dove c'era ancora la Motown e in cui ero finito, tredicenne, ad accompagnare mia madre e i miei nonni in un viaggio meraviglioso – un’iniziazione, è il caso di dire - che ci avrebbe portati a Manhattan, a Boston, alle cascate del Niagara, ma anche ad Albany e Rochester perché è America anche quella. Compravo dischi con frenesia, quasi compulsivamente, già allora, risparmiando sui vanilla ice cream. Ricordo che misi in valigia i miei primi trofei americani: un copricapo paracolpi in plastica dei Pittsburgh Pirates, una palla da baseball firmata da mio cugino Dave Giusti (che dei Pirates era stato un pilastro negli anni Sessanta), una mazza in legno della Adirondack e un sacco di 33 giri.

Conservo ancora tutto: la palla quando il mio conto va in rosso sono tentato di metterla su Ebay (anche perchè riporta una serie di dati tecnici di quel memorabile Pirates-San Diego Cardinals del 18 maggio 1969), i dischi no. Casomai li ricompro in cd. L’ho fatto anche per “Got To Be There” (1972) di Michael Jackson un sacco di tempo fa perché il vinile, sul quale c’è ancora l’adesivo “consigliato da Diana Ross”, gracchia che è una bellezza.

Mi fece simpatia quella faccia negretta. Ricordo che un altro mio cugino più grande, a Seneca Falls, suonava a ripetizione “Ain’t No Sunshine”: la trovai bellissima e uscii a comprarmi il disco. Che è bellissimo perché non c’è solo il pezzo di Bill Withers, ma anche “Got To Be There” e la più bella “You’ve Got A Friend” che si possa ascoltare. E’ un Seventies soul ancora incontaminato, quello dei capelli afro e delle macchine gigantesche. Niente incisivi d’oro, collane da un chilo e tatuaggi ostentati come usa oggi tra le star del rap e del Nu Soul. Michael era candido e pieno di fratelli che cantavano bene come lui. Vederli in televisione era una poesia. Poi, dopo essere diventato il re del pop con canzoni belle ma già diverse ("Billie Jean", "Thriller", "Human Nature" e tutto il resto), è diventato Jacko e di candido c’era solo la pelle, al cui sbiancamento Jackson lavorava ossessivamente. Così, quando ha iniziato a mostrificarsi è stata un pena che non mi interessava partecipare. Mascherine sulla bocca, i tanti misteri di Neverland e quei figli bianchi come lui che forse non hanno mai ascoltato un disco dei Jackson 5 perché era patrimonio dell’altra vita, quella - chissà perché - rifiutata.

Michael Jackson è morto qualche ora fa. Così, io che sono un romantico, ho rimesso su "Got To Be There", con tutte quelle orchestrazioni e quelle ingenuità. Mi fa pensare che anche grazie a queste canzoni non sono finito a lavorare in un Ministero. Ce n’è una, carinissima, che non ricordavo. Sembra di ascoltare le Zie Supremes di "Baby Love" e fa anche scappare la lacrimuccia, perché si intitola “Love is here and now you’re gone”.

Love, Michael. E cerca di non sentirti troppo solo anche lassù.

venerdì 15 maggio 2009

RIGO: "Smiles & Troubles", il viaggio di un bassista. Dieci canzoni, quattro corde e "due mogli".


Antonio, Rigo Righetti, Rigo, Antonio Righetti: chiamatelo come volete, ma Rigo va meglio. Perchè è breve, asciutto, musicale, e perché è una bella fortuna avere un marchio che ti rende quasi unico (pensare a Elvis e Bruce, tanto per dirne due ai quali Rigo non è indifferente e sui quali ne sa un bel po’). Poi, fatevi i conti, R.I.G.O, fanno quattro, quattro lettere, come “bass”. Lui e il basso sono una cosa sola, da un bel pezzo di vita, e tra loro c’è l’intruso, o la seconda moglie (perché Rigo naturalmente è bigamo): Robby Pellati, di professione batterista.
Succede tutto in “Smiles & Troubles” (Irma Records), prova numero due (c’era stato il mini “Songs From A Room” qualche anno fa) di una carriera da solista iniziata quando Rigo era già, con Robby (naturalmente), il motore di Luciano Ligabue. Tappe precedenti, in Italia, erano state per entrambi quella nei Rocking Chairs (tra Modena e Reggio, importante perché ha davvero messo le basi a tutto), e quelle al servizio delle canzoni di Edoardo Bennato (fugace) e Marco Conidi (concerti e un brano su disco, “Un passo via da te”, cover di “One Step Up”, venuto bene davvero, con l’apporto di un altro Chairs: Giorgio Buttazzo).


Rigo racconta, e posso confermarlo, di camere quadruple, poi triple, diventate improvvisamente comode singole, in quel salto dal rock'n'roll di provincia con puzzo d'America alle 4 e 5 stelle da classifica del lusso garantito dal suo Boss più acclamato, quel Luciano Ligabue che, come usa talvolta nel rock’n’roll, a un certo punto ha voluto continuare il viaggio da sé e “ha messo via” i cilindri cromati di Rigo e Robby per cambiare motore. Ecco che nella strada lastricata di esperienze di ogni tipo e collaborazioni con nomi che al pubblico del rock più genuino dicono molto (The Gang e Mauro Pagani in Italia, Elliott Murphy, Robert Gordon e Willie Nile dove capita) sono tornati d'attualità gli alberghi a due e tre stelle, che in questo lavoro significano due metri quadri di bagno in meno, niente servizio in camera ma un chilometro di strada libera in più.
Se l’è presa tutta, Rigo, quella strada e ci ha messo le sue idee e il suo gusto, senza commettere l’errore di confezionare un disco per i vecchi appassionati dei Rocking Chairs né per l’esercito da stadio che canta a memoria ogni canzone che passa la radio al Bar Mario. Ci ha messo dentro le letture che ama, i bei film che ha visto, i viaggi, gli anni passati ad ascoltare la musica (cosa utile per migliorarsi, perché non basta fare come in Italia fanno quelli bravi “ma bravi un bel pò”, non basta solo suonare). L’ha inzeppato, questo disco, delle cose che ha imparato quando vendeva, in un buco di quelli che non esistono più, i dischi dei musicisti che apprezzava. Ne è venuto fuori un lavoro ambizioso e atipico, un disco da cantautore rock che non suona da cantautore rock, perchè non è prodotto come lascerebbe supporre il curriculum di questo musicista curioso e di Pellati (a cui si aggiungono qui Marco Montanari, chitarrista di ruolo, e pochi pochi ospiti, tra cui Pagani).


“Smiles & Troubles”, registrato e missato tra Correggio e El Paso, Texas (davvero tra la Via Emilia e il West, mica chiacchiere) brilla perchè mai prevedibile, nè banale. Lo si capisce da come inizia “A Girl Called You”, con quell’organo che parte quando invece ti aspetti la voce, una voce con la quale Rigo, che è e resta un eccellente bassista prima di essere un cantante, fa un lavoro onesto ed essenziale, senza puntare a convenienti modelli visibili o a canoni imposti. Qui di imposto, e di conveniente, non c’è nulla, lo capisci da quella love-song un po’ fifties – “Stay” - che viene lanciata nello spazio dei Duemila da un lavoro di voci in retrovia e di programmazioni abbracciate a un malinconico violino. Lo capisci quando le chitarre lontane di “I Love You” ricordano i primi R.E.M. e non gli U2 dei grandi tour. Ne sei certo quando l’incedere di “(Just Like) St.Thomas” più che al mainstream rock che è stato la prima casa per Rigo negli ultimi vent’anni (ma qualcosa riecheggia nell'ottima "The Wrong Side Of Everything”, con quel basso “bello fuori”, così “Rigo”, così "Rocking Chairs") fa pensare a un bizzarro ma gustoso incrocio tra l’Europa dell’est e i Los Lobos più sperimentali (la ritmica, e quella chitarra twang che suona sul canale sinistro). “Lonely Winter”, “All I Really Want” e le altre, sono canzoni pensate e scritte nell’intimità, ricolme di sentimenti personali, tra riflessioni, amore per la donna amata e quel senso di libertà che ti lasciano sempre le esperienze importanti appena concluse.

C’è sempre, qui, un protagonista che si dibatte tra la dolcezza e l’amarezza, che poi sono componenti inscindibili della vita, su quella strada che percorriamo ogni giorno. Non c’è da credere completamente a Kerouac, uno che la strada la conosceva bene, e a quelle sue parole: “Mankind is like dogs, no gods”. Però un bel po’ di verità da lì’ arriva ancora, perché - a chiunque, ovunque e sempre - dopo una carezza è facile che la vita assegni un paio di morsi alle caviglie. Ecco allora Kerouac e gli altri. Rigo, dopo aver realizzato un disco ispido e morbido come la vita, accattivante ma perfettibile, cielo azzurro e nuvole, “sorrisi” e “preoccupazioni”, quelli bravi a mettere insieme le parole (Pavese, Miller, Pessoa, Kerouac) se li porta dietro anche nei live show. “Musica e readings”, potrebbe esserci scritto qualche volta sulla locandina. Canzoni di "love and hate" insieme a fogli strappati scegliendo bene. Cose che negli stadi non si possono fare. C’è un prezzo per tutto. Cosi si torna ai piccoli club, con una sacca piena di idee e i sogni non ancora consumati. Tanti auguri.

Acquista il disco: www.msol.biz/

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Il Rigo Righetti Trio (Righetti+Pellati+Francesco Pugnetti) gira l’Italia (questa sera, 15 maggio, è di scena a Roma, al Caffè Fandango, vicino Piazza del Pantheon) con le canzoni di “Smiles & Troubles” + Elvis, Robert Johnson, Leonard Cohen and more. Altro piattino niente male che vedrà Rigo tra i protagonisti è un giro di concerti estivi con Steve Wynn (Dream Syndicate), Chris Cacavas (Green On Red), Linda Potmon (Miracle 3) e altri. “Wynn plays Dylan” sembra molto di più di un “very special project”, come annuncia Antonio. E’ troppo bello per essere vero. Sarà agosto – “Antò, faaa caldo” – ma un pensierino…

Live gigs and more www.myspace.com/rigorighetti

lunedì 11 maggio 2009

JACKSON BROWNE: Un tempo sognato che bisognava sognare.


Impresso su una sacca in tela (“Saturate Before Using”, 1972, l'esordio), di profilo in versione ancora giovanile (“Hold Out”, 1980), pronto a spuntare dalle acque torbide di una relazione sentimentale difficile (“I’m Alive”, 1993, con ritratto d’autore di Bruce Weber), in controluce a guardare con preoccupazione verso est (“Looking East”, 1996), o - ultimamente - con barba cresciuta e occhiali da sole a proteggersi dai segni del tempo che conquista tutto (“Time The Conqueror”, l’ultimo di una lunga serie di album dalla poetica sempre elevatissima): il volto di Jackson Browne ha sempre rivelato senza mezzi termini, dalle copertine, dove si trovasse l’uomo, con i suoi sentimenti, prima ancora del fine songwriter.


Questa capacità di smascherarsi prima di iniziare a cantare è sempre stata la prerogativa di questo autore californiano (classe 1948) a cui il tempo sembra risparmiare quei colpi che stanno progressivamente allontanando alcuni suoi coetanei dalle scene. Perché è sempre lì, pure se aggredito da qualche capello bianco, quel classico caschetto da surfer che fa pensare alle onde e alle palme, ai Beach Boys e a “Fragole e Sangue”, alla Woodstock generation e a quando anche i Byrds cedettero alle frangette “alla Beatles”, ed è sempre più bello il canzoniere che Browne porta in giro dal vivo, mescolando ad arte le stagioni della sua creatività, tra amore e politica, chitarra e pianoforte, zone d’ombra e colpi da classifica. Sono briciole di un’iconografia andata, che per qualcuno è polverosa, ma per altri decisiva. Ieri sera uno degli auditorium progettati da Renzo Piano per la “Città della Musica” era gremito di quarantenni (questa la media, a voler stare stretti con la calcolatrice) che l’anagrafe segnala come romani con il cuore tra Los Angeles e il Big Sur. Tutti a sentire questo eterno ragazzo che gira in auto per Santa Monica ascoltando la musica di Ben Harper, che porta i suoi musicisti a Cuba con un visto religioso, che ancora si indigna per le cose che nel mondo non funzionano e che dal suo sito non vende t-shirts ma consiglia la lettura di libri come “The Reclutant Fondamentalist” di Mohsin Hamid, ovvero l’America vista dagli occhi di un giovane pakistano. In platea, c’erano quelli che presero il caldo a Castel Sant’Angelo nel 1982, quando Browne portò per la prima volta canzoni e band nel nostro paese, e quelli che senza essere presenze fisse quando Brother Jackson scende da noi lo seguono con affetto quando possono, cercando di comprendere le nuove canzoni che pubblica con la stessa attenzione riservata a “Before The Deluge” e “For Everyman”.


E c’erano anche – ad abbeverarsi a quella fonte west coast che oggi, con tre neri nella band su sette (ottimo davvero l’innesto delle coriste Chavonne Morris e Alethea Mills), offre anche magnifiche tracce di gospel e soul - quelli che lo avevano idealizzato per una vita senza mai incontrarlo. Tutti raccolti a seguire il filo della memoria e a passeggiare tra canzoni che al “tempo”, quello scandito dalle lancette di un orologio, hanno sempre guardato con occhio attento. Da “These Days” a “Late For The Sky”, da “The Times You’ve Come” a “Baby How Long”, c’è sempre in quello che scrive Browne un tempo da aspettare, da rincorrere e da temere perché vuol dire che la vita si sta consumando non senza un filo della speranza che ci lasci intravvedere un futuro migliore. Ma c'è, più di ogni altra cosa, quel tempo bello che nessuno potrà portarsi via. E chi ha sognato, o viaggiato, almeno una volta con le canzoni di Jackson Browne, quel tempo prima o poi, sia pure per la durata di una sola sera, torna a riprenderselo, come accaduto ieri. Per rubare le parole a Fossati, potremmo dire che si tratta di quel “tempo sognato che bisognava sognare”, un tempo “che sfugge” ma “niente paura che prima o poi ci riprende”.
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La scaletta della serata (Roma, 10 maggio 2009)
Primo set: Boulevard/The Barricades of Heaven//Fountain of Sorrow/These Days/Time the Conqueror/Off of Wonderland/Live Nude Cabaret/Giving that Heaven away/Doctor my Eyes/About my Imagination
Secondo set: Something fine/For a dancer/Before the Deluge/Late for the Sky//Lives in the Balance/Going down to Cuba/Just say yeah/Late for the Sky/The Pretender/Running on Empty
Bis: I am a Patriot (Little Steven)-It's Your Thing (Isley Brothers)/The Load Out-Stay (Maurice Williams & the Zodiacs)

Questa sera, 11 maggio, Jackson Browne e la sua band - Mark Goldenberg, Mauricio Levak, Kevin McCormick, Jeff Young, Chavonne Morris (foto) e Alethea Mills - concederà all’Auditorium Manzoni di Bologna l’ultima sua replica italiana (dopo Milano, Padova e Roma) prima di andare a chiudere il “Time the Conqueror – European Tour 2009” alla Royal Albert Hall di Londra.

venerdì 8 maggio 2009

WILLIE NILE: Nella "casa delle mille chitarre" non ci sono corde spezzate. Il nuovo album e il tour italiano dell'amatissimo rocker newyorkese.


Pochi minuti fa, un amico che ieri sera era come me tra il pubblico del concerto romano di Willie Nile al Big Mama, e che aveva lì acquistato la ristampa con inediti di un vecchio disco del rocker newyorkese, mi ha scritto: “Che bel disco, che canzoni, e che suoni. Se Willie non è venuto fuori con quello, vuol dire che non era destino”. Quel disco è “Places I Have Never Been”. Uscì nel 1991, dopo anni in cui, dopo essere stato tra i tanti nuovi Dylan e nella nutrita truppa dei nuovi Springsteen, ed avere anche aperto, forte di due album bellissimi pubblicati all’inizio del decennio precedente, i concerti americani degli Who, Willie aveva per più mitivi messo il freno alla sua esuberanza artistica. In quelle sue composizioni, nuove ma covate a lungo, aveva riversato tutte le proprie capacità e le proprie speranze. Canzoni alla Byrds (“Rite of Spring”, con Roger McGuinn), potenti rock a sfondo sociale che strizzavano l’occhio agli U2 (“Heaven Help the Lonely”), folk elettrici ma con lo spirito di Pete Seeger (Everybody Needs A Hammer) e ballate che pochi scrivono così bene (“Yesterday’s Dream”), non erano serviti più di tanto a consegnargli le chiavi di quel mondo di cantautori rock in cui centrali erano Springsteen, Tom Petty e, allora, Steve Earle. Piuttosto, e non è un risultato affatto disprezzabile, hanno tolto il freno alla carriera di un autore di immenso talento che sembrava essersi perduto tra le strade della sua New York.

Da allora, da quando quel piccolo motore di poesia e canzoni ha ripreso a girare, anche con il conforto dell’attenzione di un pubblico europeo che dai primi Novanta se l’è coccolato (ricambiato) come merita, Willie Nile ha messo insieme una fila di album (non tanti, né pochi, il giusto: un mini e tre in studio, più un paio di live, l’ultimo dei quali – “From the Streets of New York” - accompagnato da un bel dvd) che non hanno mai deluso chi lo segue con attenzione. “House of a Thousand Guitars” ha sorprendentemente le stesse caratteristiche di “Beautiful Wreck of the World” (1999) e “Streets of New York” (2006): è ricco di passione e speranza, nonostante gli anni passino e la forbice del futuro professionale vada inesorabilmente restringendosi per questo generoso attore della scena rock più sincera e sanguigna. Nile ha ancora intatta quella voglia, già espressa da “On the Road to Calvary” (un delicato ricordo di Jeff Buckley) e “The Day I Saw Bo Diddley in Washington Square” (cantata con Jakob Dylan), di guardare con ammirazione al lavoro di chi gli è passato accanto e non c’è più.


Celebra, come fanno anche le apparizioni live di questo minuto ma estremamente energico interprete, la grande e bella stagione di un rock’n’roll che sembra oggi aver lasciato la sua posizione centrale nel confuso e frammentato mercato dei Duemila. Basta ascoltare le prime battute del brano e leggere i primi versi per capirlo. “Non c’è occhio asciutto nella casa delle mille chitarre quando canta il vecchio Hank, di quella sofferenza che solo l’amore può portare/Puoi sentirci Bob Dylan e i Rolling Stones nella casa delle mille chitarre/e Muddy Waters e John Lennon/…non c’è una sola corda spezzata nella casa delle mille chitarre”. Scrive tutto ciò con la felicità, vera, di esserci ancora, da queste parti, a raccontare il bello che ha ancora da dire. “Benvenuti in quello che passa nella mia testa!”, grida all’inizio dei suoi concerti, prima di eseguire la vecchia “Welcome to my Head”. “Attenti a quello che succede adesso!”, esclama prima di attaccare, sul palco, un medley dei Ramones, accompagnato dalla sua band europea che lo sta accompagnando in tour (Jorge Otero + Rigo&Robby).

Nile appare immerso nel suo viaggio attraverso le radici del rock’n’rol che tanto lo ha nutrito, ma apre sempre qualche finestra su quel mondo che sta stretto a molti e che tutti vorremmo migliorare. Quando ripropone oggi “Across the River” col solo pianoforte, ricorda di averla scritta “circa trent’anni fa, dopo aver visto sul New York Times l’immagine di una donna africana piegata in terra col suo bimbo morente sulle spalle”; nel presentare “Back Home” manda un pensiero a chi una casa per ora l’ha persa (il riferimento è agli amici abruzzesi, che a l’Aquila, in un delizioso locale del centro storico oggi distrutto, ospitarono il suo primo concerto italiano nel 1992).


Il disco non manca di episodi che dispensano ancora l’energia giovane del rock’n’roll: “Run”, piacevolmente sospesa tra la ruvidità dei Clash, il candore di Buddy Holly e la fluidità dei migliori Heartbreakers, ne è la dimostrazione (“Ho il battito dell’universo che mi fa esplodere le vene/il suono della stratosfera che rimbomba nel mio cervello/ho i colori dell’arcobaleno sulla mia tavolozza/fremo selvaggiamente quando aspetto te”), ma non manca il Nile meditativo che riflette sentimenti più contemporanei. E’ quello dell’intensa, matura “Love Is a Train * (la sua “Land of Hope and Dreams”) e di “Now that the War is Over”, che col piano e un elegante accompagnamento dove eccelle il violoncello di Christopher Hoffman, urla a bassa voce parole di ficcante disprezzo per il governo americano uscente. Tutti i colori di Willie Nile sono qui, nella casa delle mille chitarre che ha anche lampi di speranza, come Give Me Tomorrow” da cui è un piacere lasciarsi attraversare (“sono stato sotto la pioggia battente/…in un mondo strano un bel po’/dove però ho visto le cose cambiare/consegnami il domani, adesso”).

Qualcuno manometta il calendario, fermi il tempo e faccia che Springsteen abbia composto, non dico tante, ma almeno due di queste canzoni (facciamo "Run" e "When the Last Light Goes Out on Broadway"), e le abbia incluse in Working on a Dream. Facciamo?
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Nile sta girando l’Italia, dove conta di tornare in estate per alcuni festival. Per ora il domani inizia stasera, con due repliche a Montale vicino Modena (8 maggio – La Palafitta) e a Bergamo (9 maggio – Auditorium di Piazza della Libertà). Insieme a questo sensibile artista, che dal vivo sa comunicare come pochi e che mantiene ancora ben saldo un posto tra quelli che sanno raccontare la vita con la semplicità dei grandi, un trio d’eccezione. Perché Jorge Otero (chitarra, ma in studio è anche mandolinista e bassista) ha già suonato per Elliott Murphy, e Rigo & Robby, ovvero Antonio Righetti e Robby Pellati sono gli ex Rocking Chairs e a lungo sezione ritmica di Ligabue che già accompagnarono Nile in Italia in tour anni fa. Di Rigo, che apre lo show con canzoni dal suo recente “Smiles & Troubles”, parleremo nei prossimi giorni.

giovedì 23 aprile 2009

BOB DYLAN - Insieme attraverso una vita. Di grandi canzoni e di esibizioni svogliate.



Dovunque io mi volti c’è qualcuno che piange il Bob Dylan che non c’è più, quel meraviglioso artista che un tempo era (quasi) solo parole, poi è stato musica (bellissima) e perfino una bella voce (calda e incredibilmente profonda, anche se un po’ artefatta, quella di “Lay Lady Lay”). E’ stato folk ed è stato rock, ha colorato le sue cosette di reggae divertendosi e divertendoci, ha fatto il bluesman rubacchiando a destra e sinistra ma lo perdoniamo (come si può non perdonare Dylan?). Ed è stato, in tarda età, con “To Make You Feel My Love”, anche un meraviglioso signore del pop (chiedere a Billy Joel, che non è fesso, che l’ha incisa per un “Greatest Hits” infilandola tra le cose sue più belle – ognuno ruba come può). E’ stato anche, ai tempi di “Hard Rain” - con una piuma infilata nel cappello - un meraviglioso cowboy. Oggi, con quei due baffetti da sparviero che esibisce dai tempi di “Love and Theft”, con quelle mise nere di raso e i pantaloni con la striscia che corre lungo la gamba pare Zorro, e meno male che resta segaligno, altrimenti potremmo propendere per Sancho Panza.
Da quando sono lucido abbastanza per comprare i dischi di Bob Dylan, attendo quello nuovo sempre con la stessa ansia e con un'emozione che riconsoo quando la sento arrivare, ma da un bel po’ i suoi spettacoli mi lasciano sconcertato.


Ha un titolo, il next Dylan, che mi affascina non poco, quasi quanto “Blood On The Tracks” o “Blonde On Blonde”: “Together Through Life”. Insieme attraversiamo la vita, o qualcosa di simile, ognuno può trovarci una sfumatura diversa. Tutti ci siamo tirati dietro qualcosa nella nostra vita. I bambini hanno lo “straccetto” che gli fa da copertina di Linus, altri hanno un amuleto, altri ancora non si separano mai da un libro (che rileggono in continuazione) o da un disco. Oggi qualcuno infila tutto in un I-Pod, e legge, guarda, ascolta. Io quando mi è possibile vado ai concerti, che mi ricordano sempre qualcuno o qualcosa. Quelli di Dylan sono davvero “together through life”. E siccome l’ultimo suo concerto mi ha deluso e il prossimo è un’incognita, gioco a percorrere la memoria e a rivivere in cinque (cinque?) righe tutti gli altri, certo che qualcuno me lo perderò per strada.

LAY LADY LAY
Quella volta che ero davanti a un giradischi, nell’ampio salone di una villa al mare. Non è stato il mio primo concerto (la palma spetta a uno show delle Orme, credo, a Rimini, in un piccolo club che forse si chiamava Splash: avevo 7 anni all’incirca, mi ci portò mia madre, mi faceva impazzire “Mita Mita”, che il gruppo dedicava a Mita Medici, mi pare di averlo letto all’epoca sulla copertina del 45 giri), né il mio primo concerto di Bob Dylan, ma è come se Dylan stesse suonando per me. “Lay Lady Lay”, andatevela a riascoltare in questi giorni in cui Dylan raglia che è una bellezza, sembra provenire da un altro pianeta tanto è cantata bene, in modo inusuale per Dylan. Che voce. Calda, baritonale, quasi come quella di Johnny Cash, che nel disco (“Nashville Skyline”) canta con Dylan “Girl From the North Country”. Abbasso quelli che considerano “Nashville Skyline” un album minore. Avevo otto anni, mi ha aperto una porta gigantesca.

CHANGING OF THE GUARDS
Quella volta che andai vicino a Londra con il treno. Trovate la storia in un mio post del 2008. Io e un altro mezzo milione di persone accalcate sul prato di un aeroporto. Dylan tornava in Europa a dodici anni dall’incidente motociclistico del 1966 che gli aveva ingrossato la voce (dicono, e io ci credo quando ascolto quella “Lay Lady Lay” del 1968). La prima volta non si scorda mai. E io non la scordo. Anche se Dylan già allora (1978) maltrattava le sue canzoni immergendole ora in un bicchiere di reggae (“Don’t Twink Twice, It’s All Right”), ora inzeppandole di flauti sciocchini (“Mr. Tambourine Man”). Aveva le maniche a sbuffo, un buffo cilindro e si truccava gli occhi . Ma a me pareva Dio. Era il mio cambio della guardia: passavo dalla musica suonata a Villa Ada con i miei amici a the real thing. Non avevo nemmeno diciotto anni.

LICENCE TO KILL
Quella volta che Dylan cantò a Verona, all’Arena, e in conferenza stampa sfoggiava un cappellino di paglia che sembrava lo spaventapasseri della pubblicità Orzoro. Le foto, abbastanza inusuali, fecero il giro del mondo, e anche io, nel tentativo di arrivare quel giorno nella città di Giulietta e Romeo in permesso militare, feci una serie di giri e casini tali che arrivai tardi. Troppo tardi. Tre date a Roma, un mese dopo, mi misero in pace con la coscienza e con la caserma. Dylan era al secondo bel disco con Mark Knopfler (“Infidels”), così le sue canzoni, “direstraits-izzate”, avevano una gradevolezza di cui fare tesoro, anche perché nel decennio Bob si sarebbe trascinato un po’ stancamente, salvo quel brillante colpo di coda (“Oh Mercy”, 1989) accanto a Daniel Lanois, l’uomo U2. Al concerto, più che Dylan apprezzai Mick Taylor, quando Dylan lo lasciava suonare. Tornai a casa e ascoltai “Jokerman”, “I and I” e “Licence To Kill” per tutta la notte perchè sul nuovo disco erano più belle. E “Sweetheart Like You”, la mia preferita in assoluto, perchè in tre sere Dylan non era riuscito a farla una volta. Avevo ventitre anni. Ancora potevo sentire musica fino all’alba.


PRECIOUS MEMORIES
Quella volta che al Festival dell’Unità, in un pratone del Modenese, arrivò facendosi accompagnare da Tom Petty and the Heartbreakers, che incidevano all’epoca dischi più belli dei suoi. Uno dei suoi allievi aveva superato il maestro. Ma Dylan e quello scampolo di anni Ottanta in fondo non mi erano dispiaciuti. In quegli anni, Bobby aveva incontrato Dave Stewart senza fare troppi danni, aveva appena pubblicato l’ondivago “Empire Burlesque” (dove “I’ll Remember You” e “Emotionally Yours”, pur se erano la coda lunga del Dylan tutto casa e chiesa, facevano faville), poi si era messo addirittura a scrivere con Sam Shepard, vecchio amico dai tempi della Rolling Thunder Revue. Quando arrivammo - io, Roberta R., Graziano R., Mauro Z., Paolo A., ma ne dimentico almeno dieci - con orecchie fresche, freschissime, di “Brownsville Girl” (di Dylan/Shepard, era un capolavoro di gospel-rock), ce la godemmo non poco. Anche perché c’era abbastanza casino da non capire in che condizione fosse quel Dylan live. Ero nei miei Mid-twenties.

DON’T DO ME LIKE THAT
Quella volta che venne a Roma, dopo Modena. Il giorno dopo? due giorni dopo? Un mese dopo? chissà chi mi può aiutare. Ma erano quei giorni lì, di un tour pomposamente chiamato “Temples in Flame”. Al Palasport di Roma, quello del tour col cappellino di paglia, apriva Roger Mc Guinn, poi c’erano Petty con i suoi Heartbreakers, band fantastica, il miglior rock’n’roll del decennio, pari alla E Street Band. E fin qui un meccanismo perfetto, un orologio. Poi entra Dylan, col suo chitarrone bianco, e qualcosa gira male. Perché gli Heartbreakers se in mezzo, a dirigere il traffico, c’è il vigile del Minnesota, diventano in un attimo come Piazza Venezia a fine anno, o Piazza San Babila quando il Milan vince lo scudetto: un casino. "Don’t do me like that”, Dylan, te lo dico con la canzone di Petty. Non farmi di nuovo una cosa del genere, Dylan, che la prossima volta me la segno al dito. Quasi dieci anni di concerti di Dylan e, per ora, soddisfazioni abbastanza magre.
Il tempio va a fuoco. Sono un ventiseienne mediamente deluso, un’altra volta.

A HARD RAIN
Quella sera che al Parco Nord di Bologna Dio ha mandato tutta la pioggia che aveva. Ma non va così male. La devo raccontare. Io e Robby P. siamo ospiti, backstage, del bassista Tony Garnier, che è amico di un nostro amico. Per ripararci dalla temporale ci vediamo Van Morrison dal palco. A tiro di gomito abbiamo un tipo strano, ma strano un bel po’. Balla… ...mmm, vabbè... si muove a un ritmo tutto suo. Vedo jeans, stivali Frye, felpa inzuppata e cappuccio extra large. Spunta il naso, ma non è un naso qualsiasi. Quando capisco che è il naso di Bob Dylan, proprio quello di tanti disegni e di tante fotografie, dò una gomitata a Robby, che siccome fa il batterista sta percuotendo i tubi Innocenti su cui siamo appoggiati. Non ci crede, devo insistere. Insisto. Abbiamo visto Van Morrison accanto a Bob Dylan. Che poi ha suonato, ma giuro che mi ricordo poco, tranne una buona e rara “Man of Peace”. Tre mesi esatti e compirò 30 anni. Dunque: in meno di 30 anni ho visto Dylan 5 volte, e Dylan che guarda Van Morrison una volta. Mi poteva andare peggio.


A HARD RAIN part.2
Quella sera che interrompo una vacanza nelle pacifiche colline del Chianti per andare nel caos del Festival Blues di Pistoia. Ma suona Bob Dylan, e siccome ho saltato i suoi tour italiani del 1992 e del 1994, capirete... Un bel pezzo di strada, un centinaio di curve e io e un bel gruppetto di dylaniati siamo a Piazza Duomo. Un paradiso per freak, sembra Woodstock trent’anni dopo. Ci pensa Bucky Baxter con la sua pedal steel guitar a far capire che c’è poco blues e molto Dylan, il solito Dylan. Che per fortuna esegue in larga parte pezzi molto conosciuti, così - aggrappato a una rete metallica - sono persino in grado di fare bella figura con l’amico Gianni R., che deve fare un pezzo per un quotidiano ed è nel panico. Gli snocciolo un titolo dopo l’altro (compreso quello dell’orrida “Silvio”) e lui sembra improvvisamente uno che ha visto la Madonna. Lo incontro ore dopo in autostrada, non è messo meglio: è in moto, a centocinquanta all’ora, sotto una pioggia torrenziale. A pensarci bene, è passato un lustro esatto (7 luglio-7 luglio) dalla serata di Bologna. Tra due mesi il mio orologio dirà che ho 35 anni. Ma Dylan è sempre, in qualche modo, next to me. Come passa il tempo.

A LADDER TO THE STARS
Quella sera che Dylan sta per fare filotto ma non ci riesce. Se fosse stato il 7 luglio 1998, Bobby avrebbe fatto i suoi ultimi tre stop in Italia sempre il 7 di luglio. Un record difficile da battere. Invece è il 5, ma è lo stesso, a Roma, una serata speciale. Per una serie di circostanze che non sto a spiegare, mi telefona Fernanda Pivano che è a Roma per contatti con un editore. Vorrei andare a vedere Dylan, mi dai una mano? Io? Beh, ci sarei andato comunque, anzi ci sto lavorando. Offro la massima disponibilità. Puntualissima all’appuntamento come lo era quando traduceva Dylan, lei appare ed è come se mi si spalancassero le porte di un mondo. Mi passa davanti un film: la beat generation, Allen Ginsberg, Bob Dylan, Hemingway, Joan Baez, De Andrè che canta Dylan, la prefazione di "Sulla strada di Kerouac". Scendiamo uno ad uno gli scalini che dal palazzo della Civiltà e del Lavoro (la groviera mussoliniana) ci portano al retropalco di Bob Dylan. Non ci giurerei ma ci fermiamo a salutare Francesco De Gregori, un altro che non è lì per caso. Quando arriviamo alla roulotte di Bob la porta si apre come si sarebbe aperta se gli avessero detto che fuori c’era George Harrison. Mi trovo un varco tra gli speaker che si affacciano sul palco, mi faccio piccolo piccolo e mi vedo il concerto da lì. Accanto a me c’è Johnny Depp con Vanessa Paradis, ma non se li caga nessuno. Ho impiegato vent’anni esatti per vedere il mio più bel concerto di Bob Dylan (con “Man in the Long Black Coat” e “To Make You Feel My Love”, che Dylan ha scritto da poco ma sembra un classico). E intanto sono arrivato a quasi trentasette anni.


COUNTRY PIE
Quella sera che un posto più brutto non si poteva trovare ma tutti felici ce ne andiamo a Firenze a vedere Dylan in un brutto Palasport. Lo show è abbastanza “country”, tra virgolette. Sarà per l’accoppiata Charlie Sexton-Larry Campbell, ma vedo un’abbondanza di mandolini e chitarre slide. Così mi animo e dico, a voce bassa, “chissà… Nashville Syline, chissà”. Ho fatto bene, perché “Nashville Skyline”, quel disco che tanto mi piace, si materializza quando Dylan fa un cenno ai ragazzi e decide di suonare “Country Pie”. Buona proprio come la torta di Nonna Papera. Dylan da vicino inizia ad essere vecchio ma vecchio. Il mio amico Giovanni C., che scatta da professionista, mi farà vedere giorni dopo dei primi piani che – dice lui – per rispetto non si possono vendere a nessuno. Siamo da poco entrati nel nuovo millennio. Tempo un anno e mi aspetta il nastro dei 40 anni da tagliare. Con Dylan, tra pioggie e dolori, siamo quasi a 10 concerti in un quarto di secolo.


SUMMER DAYS
Quella sera che Dylan giocò a baseball. No, non è uno scoop. Non è successo ma fa un certo effetto vederlo suonare su un “diamante” del baseball. Siamo ad Anzio, dove sbarcarono gli americani e dove nel 2001, fresco di album nuovo, Dylan trova una grande platea di sedie ad aspettarlo. Il giorno prima mi era accaduto quello che mai più mi accadrà: ho atteso Dylan sulla porta di un hotel, l’ho visto arrivare a piedi, come uno qualsiasi, ho preso l’ascensore con lui, gli ho aperto la porta di una sala dove ad attenderlo c’era una decina di giornalisti, lì per parlare con lui di “Love and Theft”. L’unico che non gli ha fatto una sola domanda è stato quello italiano. Il giorno dopo, un’intera pagina di “intervista esclusiva”, con le domande di tutti gli altri. Capita a chi vorrebbe chiedere tutto a Bob Dylan così finisce per non chiedere nulla. Sarebbe potuto capitare anche a me. Ma non ne sono certo.
Ad Anzio, normale amministrazione. Come a Pistoia era stato un Blues Festival senza blues, qui è un Jazz Festival senza jazz. Anche se Dylan, ormai, è tutto, mescolato; perché nel nuovo album, dove nella foto di copertina Bobby sembra malandato ma all’interno pare un modello sessantenne, una vaga traccia di jazz c’è, specie quando in “Summer Days”, che insieme a Mississippi mi piace assai, si viaggia su una strada che incrocia Django Reinhardt e gli Stray Cats. Del concerto vorrei poter ricordare e poter dire di più, ma ho poco da ricordare e ancor meno da dire. Il Dylan live, se mai l’ho incontrato, l’ho smarrito da parecchio tempo. Il tempo che è bastato a portarmi a passi da gigante verso i miei 40 anni, che ora sono davvero dietro l’angolo. Bye bye Anzio, bye and bye Dylan. Torno a casa provato e con un paio di birre di troppo sotto la maglietta. Per fortuna che in macchina con me, insieme a un Dylan “che canta bene”, c’è Antonio R., così "rigo" dritto.


TOGETHER THROUGH LIFE
Quella sera che Dylan è tornato al Palaeur di Roma per la terza volta in venticinque anni gli ho dato buca. Chissà dov’ero. Brutto segnale. Ho dato buca anche ai tour italiani di Dylan nel 2005, 2006, 2007 e 2008. Per fare il padre. Ma è una piccola bugia, perché se fosse tornato una volta con The Band (o quel che resta) ad accompagnarlo, una volta con i Counting Crows, una volta con la E Street Band e una volta con i Subdudes sarei stato lì, I’m positive. E voi, avete qualche dubbio? Ma la solfa è sempre la stessa, ormai Tony Garnier ha alle spalle 2000 concerti (la sparo, convinto di non sbagliare troppo) di cui ai nipotini forse non saprà un giorno che raccontare. Se Dylan è in pausa da un bel po’ quando si confronta col palco, qualche pausa me la posso concedere anche io.
Ma quella sera – qualche sera fa – che Dylan è tornato ancora a Roma, dove l’ultima volta, mi dicono, aveva trotterellato per tutto il tempo dietro a una pianola, quella sera c’ero. La sera che sul calendario c’era scritto 17 aprile 2009 io c’ero. Per affezione. Per causa di una malattia incurabile. Per nostalgia. Perché sono uno che non butta le macchinine né i giocatori del Subbuteo, figurati se butto Dylan.
La verità più vera di tutte è che mi ero riposato dal solito tran tran del dylaniano “Never-ending-tour” per sette anni. Ci poteva stare che muovevo il culo e mi facevo dodici chilometri in Vespa per andare a vedere Dylan. Dylan, che da un po’ firma come Jack Frost la produzione dei suoi album tutti molto simili tra loro, mi accoglie – aiuto! - con la sua pianola. Il culo al centro del palco lo porta una volta per stiracchiarsi dietro a una chitarra e un paio di volte per sputacchiare dentro l’armonica. Se Dylan non è più Dylan da un bel po’, oggi lo è meno che mai. Temo che lui e Tom Waits siano clienti dello stesso laringoiatra pazzo. Solo che Waits sulla vociaccia ci ha costruito una carriera, Bobby la sua di carriera l’ha demolita con quell’insopportabile e svogliato raglio. Non importa che stia mortificando un monumento come “Don’t Think Twice It’s All Right” o provando a farci capire, a parole, che la sua band sta suonando “Boots Of Spanish Leather”: funziona tutto poco, e male.
Dylan un tempo era uomo di parole, quando la musica per lui era un accessorio con cui tenere impegnate le corde della sua chitarra acustica. Poi è stato anche un uomo di musica, bella. Adesso è tristemente un uomo di riff e ritmi. Si innamora di un giro, lo fa looppare a quegli asini della sua band (non che non siano capaci a suonare, semplicemente non sono capaci di ribellarsi o di andarsene) e dentro ci infila una sua vecchia meraviglia che di meraviglioso non ha più nulla. Ascoltare oggi Dylan dal vivo è come fare l’amore insossando tre preservativi, uno sull’altro, e di colori diversi. E’ come vedere un bel film dalla cassa, con il biglietto in mano e i popcorn ma senza superare mai le tende di velluto pesante. E’ come andare allo stadio e restare fuori a guardare la bancarella delle sciarpe.
Questa volta mi sono riportato a casa la lacrimuccia durante la centenaria “Like A Rolling Stone” (ci ho scritto un libro con quel titolo, come potrei rimanergli insensibile?) e un sorrisetto di simpatia per “Spirit On The Water”, scritta l’altro ieri ma copiata da chissà chi. Ho gioito senza darlo a vedere per Salvatore S. e Fabrizio B., chè erano soddisfatti della loro prima volta, quella che non si scorda mai. Mi hanno fatto pensare alla mia prima volta e a tutta la vita – bella - che c’è stata in mezzo, tra quei miei diciassette anni e i quarantotto, che ormai sono distanti dai cinquanta solo un paio di album di Dylan.
Quello nuovo, di disco, sta per arrivare. Dice “Together Through Life”. Non ho sentito nulla, posso aspettare, non ho voglia di rincorrerlo in giro per Internet, con Dylan non si fa. “Insieme attraverso la vita”, che bel titolo Mister Dylan. Cos’è, una minaccia? Vado a sgranchirmi un paio d’anni di là. Ci rivedremo. Lo so.

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La foto di Bob Dylan con il cappello nero è di Filippo De Orchi (17/4/09) - grazie!

martedì 14 aprile 2009

LOWLANDS - Chitarre, Bonarda e bourbon. Quando il buon rock americano e la musica d'autore dei "grandi spazi" arrivano da Pavia.


In between, ovvero in mezzo, ci stiamo un po’ tutti. Ci stiamo noi che ascoltiamo la musica americana, facendoci trasportare in Texas o in California ogni volta che ci arriva uno di quei dischi che hanno il potere di farci saltare l’Oceano; e ci stanno i musicisti, quelli che con piedi e chitarre sono ben saldi in Italia ma suonano, sognano, scrivono come se quel mondo tanto mitizzato fosse dietro l’angolo e non al di là del mare. Per la somma di questi motivi, in between ci stanno anche i Lowlands, attualmente la migliore banda italiana di american rock’n’roll. Ci stanno più di altri perché da Pavia guardano a ovest con la passione dei fan della musica (quelli, appunto, per cui un nuovo disco di Steve Wynn è sempre un evento) e con la comunicativa di chi la musica la fa con la speranza di portarla lontano. Mesi fa, i Lowlands mi fecero avere un loro demo, e poi un altro, e poi il loro prezioso esordio, Last Call (registrato – bene -tra Italia, America, Inghilterra e Australia), dove alla posizione 5 c’è “In Between”, in cui Edward Abbiati scrive e canta “you travel a million miles but never move on”. E’ una canzone di speranza e rammarico, di quelle dove il protagonista sembra immobile, stretto tra la voglia di andare e quella mano misteriosa che lo trattiene. Cinque minuti dolenti, alla Ghost of Tom Joad, incastrati con il loro violino e un accompagnamento essenziale di chitarre acustiche e pedal steel, in un disco bellissimo che altrove sprizza Americana, quella buona, celebrando – con personalità e originalità - le molte facce della canzone d’autore made in USA e il suono di tante band di cui questi ragazzi vedono la scia. Sul finire di “In Between” c’è una frase - “every now and then something happens” – che da sola sembra raccogliere ogni segreta ambizione di casa Lowlands. Se è vero che ogni tanto qualcosa succede, qui di cose ne succedono e ne succederanno parecchie, e il merito è di una scrittura davvero brillante, che Abbiati, un pavese bilingue che ha sangue australiano nelle vene, supporta con un’interpretazione che dalle nostre parti – dove a cantare certe cose in modo così credibile sono in tre o quattro – è quasi impossibile battere.

Così capita di innamorarsi di “Leaving NYC”, canzone di viaggi e promesse, tra i momenti più toccanti del disco, dove il protagonista attraversa in Greyhound l’America delle mille facce (“intrappolate tra il sogno e la realtà, come me”, canta Abbiati), delle mille possibilità e dei mille tradimenti. Dove si scappa come ladri da New York, dove si plaude a quelli che ce l’hanno fatta e si piange chi è andato via per sempre, dove puoi “sballare” a Toronto e venire beccato a Buffalo, quell’America che quando serve manda giù una pioggia benefica a lenire il dolore. E’ l’America che abbiamo sentito cantare tanto a lungo da averne quasi noia, senza mai sapere per certo se arriverà un’altra canzone a farcela amare di nuovo. “Leaving NYC” è una di quelle, perché avrebbero potuto scriverla Willie Nile, Steve Forbert o Michael McDermott, e perché quella strofa in cui si esce dal Lincoln Tunnel per incontrare il New Jersey delle Turnpike, del fantasma di Sandy e delle thunder road non è solo un omaggio alla musica di Springsteen ma un crocevia di emozioni uniche che portano anche altrove. La completezza di questo disco e l’armonia delle sue intenzioni sono testimoniate infatti anche da quegli episodi di bellezza mista, come “Ghost of This Town”, poesia ibrida che sembra nascere nel garage dei Green On Red per approdare, giusto il tempo di finire il primo verso, dalle parti degli Hothouse Flowers, in quella terra d’Irlanda che dalle nostre parti è il primo oblò attraverso cui si vede davvero l’America. Tra notti scure, cieli color arancio, angoli di strada, la luce pallida di una luna piena, venerdi in cui fare festa (due canzoni si abbracciano grazie a questo tema, “Friday Night” e “That’s Me On The Page”) e spiagge davanti al Pacifico si consuma il più bel disco di american rock prodotto dalle nostre parti dopo la favola troppo breve e ormai lontana degli emiliani Rocking Chairs.


Prendete ognuno di questi brani e fatelo vostro senza indugio, per ritrovarci i Dream Syndicate che non ci sono più (“What Can I Do”) o per godere di qualcosa che non assomiglia a nulla se non ai Lowlands (“38th & Lawton”), perché la bravura di Abbiati (voce, chitarre e ottima produzione artistica) e di chi viaggia con lui (il bassista Simone Fratti, il batterista Paolo Maggi, la violinista Chiara Giacobbe e i chitarristi Simone "John" Prunetti, Stefano Speroni e Francesco "Lebowski" Verrastro, più ospiti vari e nobili, tra cui Chris Cacavas e Nick Barker) è proprio nel rasentare i muri maestri della musica americana o percorrere le strade di retrovia aggiungendo i propri colori, cosa non sempre facile come appare qui. Già segnalati, con merito, da magazine e siti americani, i Lowlands sono una bella scommessa che parte dalle nostre campagne dove si beve la Bonarda per arrivare a stordirsi nella terra dove whisky, bourbon e birra scorrono a fiumi.

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Sapere i Lowlands impegnati tra breve (il 17 aprile) a Spaziomusica di Pavia, la loro Asbury Park, mi fa venire voglia di rubargli di nuovo le parole e fargli una pinta di auguri, certo però che questi rocker di pianura, raccolta l’ultima chiamata, siano già partiti.
Every now and then something happens…

www.lowlandsband.com

martedì 17 marzo 2009

JOE SLOMP / "New Move": jazz, pop, soul e west coast, tutto in una voce.



Dai Coldplay a John Coltrane, dai Red Hot Chili Peppers a Joe Jackson: una voce italiana attraversa i generi

What's Goin' On (Marvin Gaye) e Naima (J.Coltrane) in rotazione su "Monte Carlo Nights", RMC, by Nick the Nightfly.

The New Album

New Move (River Nile/Ala Bianca) riuscirà a sorprendere molti – anche se probabilmente non quelli che conoscono già I’approccio musicale di Joe. Nu soul, urban jazz, standard classici, piccole formazioni acustiche, una sprizzata di suono big band, morbide parti vocali, perfino due duetti: sono questi gli elementi che compongono i 55 minuti e i 13 brani di New Move. Il viaggio comincia con la rivisitazione degli Style Council di Lodgers, per saltare in una tagliente versione di Scar Tissue dei Red Hot Chili Peppers. L’umore torna positivo con la riscoperta di una gemma nascosta di Bill LaBounty, In 25 Words Or Less, ridipinta con una sezione fiati a swingare come le big band. Poi, solo due strumenti a supportare la voce di Joe in The Very Thought of You, con il contrabbasso di Dario Deidda suonato e stoppato a fare anche da percussione. The Way It Is di Bruce Hornsby viene resa in un arrangiamento jazz dal passo serrato e veloce, spinto dal basso di Deidda e impreziosito da un magistrale assolo al piano di Pino Iodice. Stefano Micarelli ha prodotto una Naima nello stile del Barrio Jazz Gang, tra campionamenti, suoni e voci missatiesapientemente.
Poi un’altro cambio di tono tanto improvviso quanto calzante, per immergersi nella riscoperta di Eleanor Rigby dei Beatles, ancora scarna con solo chitarra e contrabbasso a portarci il groove. What's Going On, resa qui in forma di ballad, regala all’ascoltatore aspetti non ancora esplorati di questa grande canzone: davvero da ascoltare la voce di Joe, l’assolo di chitarra di Micarelli e il superbo lavoro di spazzole di Pietro Iodice. Troviamo poi del rock'n'roll, del jazz e del blues, fusi in Night Train, omaggio alla divertente interpretazione di Eddie Jefferson. Anche i Coldplay – eroi della musica del Duemila - vengono rivisitati. Con Yellow, che riscopriamo tinta di jazz waltz. E poi Baby It's Cold Outside, tra le cui pieghe troviamo il secondo duetto con Pauline London. Uno standard classico, My One And Only Love, e l’arrangiamento afro con molteplici sovrapposizioni vocali di Steppin' Out (scritta da Joe Jackson negli anni del cool pop inglese, i primi Ottanta) vanno a chiudere l’album.

New Move (on River Nile/Ala Bianca) is going to surprise many - though probably not those who are already familiar with Joe's work. Nu soul, urban jazz, classic standards, small club drums-less combo, a touch of big band swing, smooth vocals, even two duets: all of these elements make up the 55 minutes and 13 tracks of New Move. The journey starts from the revisitation of Style Council's Lodgers, jumping into a cutting version of Red Hot Chili Peppers' Scar Tissue, the mood then switches to Bill LaBounty's hidden gem, In 25 Words Or Less, colored with a 5-piece horn section swinging in big band mode. Only two instruments back up Joe's voice on The Very Thought of You, with the percussion to keep the pulse going provided by Dario Deidda's slapping on the upright bass strings. Bruce Hornsby's The Way It Is gets rendered in a fast-paced jazz arrangement powered by Deidda's bass with an impressive piano solo by Pino Iodice.
Stefano Micarelli produced a Barrio Jazz Gang-style samples-laden Naima, then another sudden though fitting change of mood with Beatles' Eleanor Rigby, again with only guitar and bass to drive the groove. What's Going On, rendered here as a ballad, brings to the listener aspects of this song not yet explored, guided by Joe's voice, Micarelli's guitar solo and Pietro Iodice's superb brushes work. Rock'n'roll, jazz and blues are next, all embedded in Night Train, hommage to Eddie Jefferson's interpretation. Coldplay's Yellow gets revisited in jazz waltz style, and Baby It's Cold Outside we discover the second duet with Pauline London. A classic jazz standard like My One And Only Love, and Joe Jackson's Steppin' Out afro rhythm and multi-layered vocals close the album.

About JOE (www.joeslomp.com)

Artista maturato nella scena dei club jazz di Roma, Joe – che ha vissuto tra Italia, Parigi, Cambridge e Copenhagen – abbraccia tutta la musica, dalla A alla Z, come si percepisce chiaramente dalla sua produzione, e come si deduce dal suo curriculum di cantante solista e dalle partecipazioni come backup vocalist, chitarrista e tastierista in numerose band e accanto ad artisti solisti (Mimmo Locasciulli, Alta Tensione, Capital Soul). Prima di cominciare a produrre i suoi album da leader, ha registrato brani jazz con il maestro di piano jazz Nino De Rose, ha cantato in TV con Sarah Jane Morris, ha contribuito con Tenth avenue freeze-out al cd-tributo italiano a Bruce Springsteen “For You” e partecipato come backing vocalist all'album omonimo di Marco Conidi (1998). Passando dal jazz al soul al rock all’R&B, e adattando la sua voce alle capacità espressive richieste dalle canzoni che propone, Joe aggiunge la sua preziosa miscela e il suo amore sincero per queste canzoni al panorama musicale del nostro tempo.

A live performer brought up in Rome's jazz club scene, Joe – who lived between Italy, Paris, Cambridge and Copenhagen - embraces music from A to Z, as can be heard from his 3 CDs production, and deduced from his portfolio of lead and backup vocals, guitar and keyboards contributions to numerous bands and solo artists (including Mimmo Locasciulli, Alta Tensione, Capital Soul). Before recording his solo albums, he cut some tracks for jazz piano maestro Nino De Rose's recordings, on TV with Sarah Jane Morris and contributed with 10th avenue freeze-out to Italian Bruce Springsteen tribute cd “For You”. Ranging from jazz to soul to rock to R&B, adapting his voice to suit the needs of the songs he sings, brings his own blend of musical flavours to the table.

My friend

Facciamo musica insieme da un bel po’, io e Joe. Quanta vita. Quante discese. E quante salite. Lui cantava, io ascoltavo, guardavo, pensavo. Al massimo prendevo nota. Mi sono scelto il ruolo più semplice e il più difficile, perché ascoltare è più comodo ma cantare è più bello. Un giorno ci sarebbe stato un disco, lo sentivamo. Siamo arrivati a due, e chi poteva dirlo. Introducing e New Move contengono un bel pezzo di storia della musica con cui ci siamo formati. Di più, sono la cassaforte dei nostri sogni e la raccolta di tutte le nostre discese e salite. Può una canzone contenere così tanto? Credo di si. Può una voce farsi carico di tanto? Decidetelo voi. - E.L.

lunedì 23 febbraio 2009

BONOLIS E SANREMO: A qualcuno piace "milionario"


Nel giorno in cui The Millionaire si porta a casa otto Academy Award, che da noi si chiamano più folcloristicamente “le statuette dell’Oscar”, cala defiinitivamente (definitivamente?) il sipario sulla settimana che ha incoronato Paolo Bonolis re di Sanremo. Sembrava poco probabile che il presentatore riuscisse a migliorare il suo Festival del 2005, eppure ci è riuscito e gli va dato merito. Se mi avessero preannunciato la presenza, sullo stesso palco, di Kevin Spacey, Todd Rundgren, Nathan East, Katy Perry e Burt Bacharach avrei pensato ai Grammy Awards. Se avessi letto, tutti in fila, i nomi di Gino Paoli, Roberto Vecchioni, Pino Daniele e Roberto Benigni mi sarebbero venute in mente edizioni passate del Premio Tenco (la prossima volta perchè non Tom Waits a cantare di nuovo col toscano, visto che ora sembra tutto possibile?). Se mi avessero detto che Riccardo Cocciante avrebbe cantato in prima serata “Quando finisce un amore” e che in diretta dalla platea dell’Ariston, di fronte a dodici milioni di spettatori, avrebbe avuto diritto di parola il presidente onorario dell’Arcigay Franco Grillini non ci avrei creduto. A tante altre cose non avrei creduto, ad esempio che tra i “giovani” avrebbe trionfato una ragazza priva di quei requisiti estetici richiesti per l’ammissione ai reality show.
Per rimanere sul terreno della musica, e per dire ancora della bravura e dell'irresistisbile simpatia di Arisa, mai avrei creduto che nella sezione “nuove proposte” avrebbe sbancato un pezzo retrò accompagnato dalla steel guitar (c’era sul palco, e ancora di più nella versione da disco, verificare pure) che è prerogativa della country music. Certo, la stralunata cantante lucana e la steel guitar sono quanto di più distante possa esserci dal terzetto dei ”big” vittoriosi. Ecco l’unica nota dolente: il podio, quello del sabato sera. Forse il prezzo da pagare per avere tutto il buono precedentemente elencato era ritrovare lassù Marco Carta, Sal Da Vinci e la canzone troppo derivativa di Povia (vedi Cristicchi, Waterboys, Povia stesso) consegnati agli annali del Festival. Ma di questo non si può dare colpa a Bonolis, che per garantire varietà e interesse alla rassegna doveva prevedere anche la presenza di un teen idol e di un neo melodico, nonchè di un tema - quello di “Luca era gay” - che suscitasse curiosità e scatenasse polemiche, ingredienti base di ogni trasmissione televisiva che ambisca a un certo tipo di successo.
Poi l’Italia del televoto è quella che è e ce la dobbiamo tenere, purtroppo.
Ma altre due Palme (quarto e quinto posto) è d’obbligo assegnarle. Una a Pippo Baudo per aver fatto la storia del Festival e per aver accettato di condurre con misura(polemica Mina/Puccini a parte) e professionalità la sua “Domenica In – Sanremo” dallo stesso palco che la sera prima aveva suonato la marcia trionfale per il suo successore. L’altra alla battuta dell’anno (Benigni): “Sono rimasti in due che mandano filmati: Mina e Bin Laden”.
Il Milionario, in queste ore da Premio Oscar, è Bonolis, che sembra aver messo tutti d’accordo.
Ci riuscissero mezza volta i politici, in quest’Italia di canzonette!

martedì 17 febbraio 2009

ON VALENTINE'S DAY, BRUCE AND THE NEW SONGS



I'm driving a big lazy car...


On this past Valentine's day I started to like some of the new songs a
lot. No, wait a minute, I am starting to actually "love" some of the new songs a lot.
I always loved that "Tunnel of love" final track. Valentine's Day, what a nice ending. Just like "Drive all night" it's the quintessence of the romantic Bruce Springsteen.
That "love & sadness" bittersweet kind of feeling that pervades some of the best Bruce's ballads it's something that for me speaks as loud as any great BS rock'n'roll song. Simply couldn't do without it. Couldn't
do without "Fade away", "I wish I were blind", "I wanna marry you", "Back in your arms" and stuff like that.
It's not exactly what brings eighty thousand people to fill a Spanish
stadium for two nights in a row (and that's still a great thing to
witness) but it's there, it's a value, I can't forget that my love and
admiration for Bruce is built around those kind of songs as well
as "Born to run".
"Working on a dream", the album, is filled with joy and I hear many
people disliking the album 'cause of that.
Even though I'll never forget how the rage in "Darkness" and "Nebraska" songs spoke to me when I first heard them, I am open to give credit to the happy Bruce. What's wrong about being happy with your life and to show a great hope in your country's future?
I loved and love pop music as much as I love rock'n'roll.
I need the energy and rhythm of "Great balls of fire" as much as I need Roy Orbison's dramatic and melancholic falsetto.
I need the rough edge of some Rolling Stones songs as well as the
sweetness of the Beach Boys harmonies.
I need the highway and the beach.
I need "Raw power" and "Fun fun fun".
Driving my "big lazy car rushing up the highway in the dark" I was
hearing the new songs again and again and thinking that every woman, especially on a Valentine's Day, would love to have somebody writing and singing "This life", "Kingdom of days" and "Surprise, Surprise" for her. I do like to have them on a disc. I appreciate the passion that Bruce brought into crafting those incredible harmony vocals for his newly written songs.
They are not "Thunder road", everybody knows that, including Bruce, but I want to thank him for bringing his happy soul to the studio and for not forgetting his favourite 45's from the Sixties.
I think "Girls in their summer clothes" won a Grammy for this reason,
and the new album - or the most part of it - started from where that
brilliant song ended.
My hope for the tour is that Bruce and his camp would create a live
show that could be unique and strongly connected with this album. Just like the beginning of the 1988 tour was. Something that would be
coherent with the new musical approach.
The size of the tour and the way it is shaped (see: stadiums and
festivals) clearly works again any drastic change in either the whole stage setting and the band's line up (why don't bring the horns back on the road? or why don't add a small string section to the ESB? or how 'bout some proper background vocalist, a la Roy Orbison's "Black & White Night"?).
Sure, Bruce is still adding new songs to every tour, but I
can't help but thinking that "in some fashion" I've been watching the
same show for the last ten years.
It was a lot of fun, Bruce, but how 'bout a little "surprise, surprise"?

...I got one hand steady on the wheel
and one hand's tremblin' over my heart

lunedì 2 febbraio 2009

BRUCE SPRINGSTEEN: WORKING ON A DREAM, il sogno pop della E Street Light Orchestra. E il popolo del Boss si divide.


Ryan Adams, 34 anni, qualche discreto album e nessun capolavoro alle spalle, ha avvisato i fan dal suo blog: “lascio la musica, potrei tornare, ma non ne sono affatto certo”. Bruce Springsteen, 60 anni dietro l’angolo, qualche discreto album e diversi capolavori, pubblica il suo ventiquattresimo disco non senza fiatone ma è qui, a giocarsela su quel terreno che è suo da una quarantina d’anni.
Questo non è un paragone tra il Boss e il giovane Ryan (non Bryan), al quale va dato il merito di aver scritto buone canzoni e di aver provato tutte, ma proprio tutte le strade per realizzare un album da vero Boss: é un modo per spiegare quanto sia difficile, nel mondo della musica, restare competitivi a lungo.
A voler tirare in ballo due grandi, equiparabili a Springsteen per statura artistica, si può evidenziare come sia Bob Dylan che Neil Young abbiano alle spalle paurose oscillazioni. Da un trentennio almeno, quando si parla di album registrati in studio per loro si alternano segnali di giubilo, il pollice verso, entusiasmi e indifferenza: accade di tutto, ormai è la normalità. La normalità, forse, per due artisti che ci hanno preparati a tutto, saltando tra divagazioni elettroniche (lo Young di “Trans”) e incolori album di cover (Bob, nei giorni di “Self Portrait” e “Dylan”), non per Bruce Springsteen, che come i colleghi tiene vivo il suo mito suonando sui palchi di tutto il mondo ormai quasi incessantemente ma che a differenza loro finisce sempre sotto i riflettori quando pubblica nuove canzoni.
Da noi in Italia, addirittura, arriva puntualmente, da vent'anni, al primo posto della classifica di vendita degli album.
Se Springsteen lascia ancora il segno ad ogni pubblicazione è per effetto della sua straordinaria capacità di rimanere in gara, al centro di quella competizione artistica che molti suoi coetanei illustri hanno abbandonato da tempo.


Quando sembrava voler affondare nuovamente la mano negli archivi, offrendo al suo pubblico nel trentennale di “Darkness On The Edge Of Town” (1978) un’edizione rimasterizzata di uno dei suoi dischi più belli (potenziata da un concerto e da un documentario già registrato, con Patti Smith a dire la sua su “Because The Night”), è arrivato l’annuncio di un nuovo disco, nuovo a metà, a ben vedere, perché presentato esplicitamente come una appendice di “Magic”.
Diciamolo subito: “Working On A Dream” è troppo complesso per finire da subito liquidato come l’appendice di qualcosa. Non è un capolavoro, ma un disco da attraversare con cognizione di causa e una giusta dose di rispetto.
Certo, presentarsi con un fumetto anziché una copertina e partire con un pezzo da otto minuti è quantomeno azzardato. Della copertina rispondano l’artista e il suo staff, gli stessi che approvarono l’indimenticabile scatto fotografico usato per “Born To Run” e che rifletterono per mesi proprio sulla grafica di “Darkness”. Sul pezzo non si apra un processo: poche volte Springsteen ha rasentato o superato quella misura (“Incident On 57th Street”, “New York City Serenade”, “Jungleland”, “Backstreets”, “Drive All Night”: parliamone!) e nemmeno “Stairway To Heaven” o “Hotel California” durano tanto, tuttavia “Outlaw Pete” è composizione rock, genuina e roots abbastanza da non far sospettare intenzioni lucrative. Poteva risolversi prima ma ha il merito di concludersi senza che gli occhi siano caduti sull’orologio, e poi sembra coincidere con le intenzioni di due Springsteen al di sopra di ogni sospetto: quello del pre-“Greetings”, che scriveva storie di pistole e malaffare (“He’s Guilty”, “The Ballad Of Jesse James”), e quello delle “Seeger Sessions” che ha nuovamente abbracciato il mondo dei fuorilegge (“John Henry”). Assolta a fatica, ma il tempo e il palco, se Springsteen deciderà di portarsela in tour, le faranno del bene.


Bruce non è tipo da cadute verticali. Ha lasciato perplessi ma mai sconcertati. Ha pubblicato dischi che potevano essere più concisi (i due del 1992, dai quali poteva trarne uno potenzialmente bellissimo, da metterci la mano sul fuoco; un album che avrebbe reso ancora di più se fosse stato suonato dalla E Street Band e non da musicisti di talento chiamati a percorrerne il solco) ma mai ha veramente tradito le aspettative dei suoi fan.
Oggi c’è da seguirlo nella sua evoluzione e nella sua lecita curiosità verso ciò che non ha fatto prima d’ora, c’è dunque da esplorare con affetto e interesse la strada che Springsteen è libero di permettersi.
“Thunder Road” su disco non la ritroveremo più? Pazienza, si era capito da un pezzo. Quando si stacca dalle assi del palco, dove tutto continua a funzionare a meraviglia, l’uomo di “Born To Run” cerca un’altra dimensione. È meno terreno, toglie il freno a mano all’immaginazione. E diventa più poetico. Osa. Sogna. Questa è la chiave di lettura per godersi in serenità il sedicesimo album in studio di un uomo che a trentasette anni dal suo primo disco è ancora oggetto di studio e accorate discussioni.


Fresco di Golden Globe (per “The Wrestler”, dal film con Mickey Rourke, bonus track ma punto più ispirato della raccolta), Bruce si presenta sotto un cielo di stelle che sembrano porporina. La giacca l’ha presa dal guardaroba che nemmeno Little Steven usa più. Tra i capelli, un riflesso biondiccio innaturale. Dietro c’è la luna. D’accordo, siamo nel limbo tra magic e dream eppure si poteva essere più sobri nel raccontarlo.


Va detto però che preso in mano e osservato da vicino, soprattutto nella sua versione de-luxe, che è più ampia, l’oggetto “Working On A Dream” smorza lievemente la diffidenza verso l’impasto cromatico della copertina e lo stile scelto per illustrare questo viaggio nel pop di un consolidato boss del rock.

Subito ci investe come già detto il brano di apertura e sono otto minuti da prendere o lasciare, un corpo quasi estraneo che tuttavia – e qui sarà necessaria un’analisi molto più approfondita, prevista anche per il resto dei brani (prossimamente su questo blog) – attraversa più la vita stessa di Springsteen che quella del precoce pistolero qui cantato. Un passo dopo "Outlaw Pete" arrivano “My Lucky Day” (media statura, da quinto disco di “Tracks”) e “Working On A Dream” (rinfrescante fischiettata pro Obama in stile Roy Orbison voltata a guardare quei 60 – dei Kennedy, di Pete Seeger e di Martin Luther King – per l’America mai più tornati), e il fatto che sembrino di seconda mano, ovvero che siano state offerte al pubblico in più modi prima dell’uscita ufficiale, smorza un po' la nostra curiosità.
Anche qui il tempo sarà galantuomo e consentirà alle due canzoni di finire riassorbite dall’album che le ospita dopo essere state veloci e improbabili singoli online (ma perchè poi chiamarli singoli, ormai sono fugaci apparizioni da rete, anticipazioni elettroniche senza più cuore nè copertina).

E’ quando si giunge a “Queen Of The Supermarket” – incedere classico, pianoforte e glockenspiel, tenerezze da E Street Band di un tempo e complesse elaborazioni vocali – che scendono in campo, col motore del disco già caldo, tutti gli elementi che divideranno il popolo springsteeniano. Si apre qui un mondo di non facili compromessi tra un deciso sapore rock (marcatamente alla Tom Petty quello di “What Love Can Do”, con cori in stile Byrds che affiorano anche altrove) e un rischioso pastiche pop con la bussola che sterza verso la California dei surf incrociando abbastanza spesso certe orchestrazioni marcatissime che sono sempre state una prerogativa dei gruppi anni Sessanta (ecco il vero riferimento di questo Springsteen anni Duemila che gioca a tuffarsi nei ricordi).
Altra spiegazione è che al contrario di “The Rising”, che trasudava smarrimento e cordoglio, questo lavoro presenta una maggioranza di brani che invitano ad accettare la vita per quella che è, celebrandola con un sorriso. È un disco felice che indugia sull’amore. La politica è una eco lontana, è lambita, forse volutamente silenziata.


L’impasto creato da Brendan O’Brien (che sembra avere esaurito un ciclo) è avvincente ma può stordire. L’orecchio attento ci scoverà i Beau Brummels, i Left Banke, i Monkees e i Kinks. La sponda dei diffidenti e dei meno riflessivi avanzerà il sospetto che questa volta, partendo dai Beach Boys come accadde in “Girls In Their Summer Clothes”, si sia presa la deriva che porta a Jeff Lynne. In “This Life” (e non solo) c’è la E Street Light Orchestra? Nessun problema: è bellissima, quel prologo alla Bacharach è un incanto imprevedibile che abbracciamo con ricambiato incanto, anche perché con la frase «a blackness then the light of a million stars» («buio pesto, poi la luce di milioni di stelle») ben spiega la copertina, il mood dell’autore, il senso del disco e le aspettative del mondo dopo Obama.

Intromissioni d’archi alla Beatles e chitarre che fanno sognare appaiono anche in “Kingdom Of Days” (ampollosa ma convincente e amabile almeno quanto “This Life”) e “Surprise, Surprise” (che a un certo punto cita “You Got It” di Orbison: quindi tutto torna, anche Lynne). Ormai libero dall’obbligo di dover sempre offrire un concept o di cercare un suono unitario, l’autore svolazza, ondivagante e sovente con approccio vocale vagamente tenorile, tra i “singoli” della sua adolescenza e tra i tanti Bruce che ci hanno intrattenuti negli ultimi tempi. Ne raccogliamo in frutto anche l’elegante e composta “Life Itself”, il blues tutto jersey devil di “Good Eye” e l’ottimismo country di “Tomorrow Never Knows”. Anche quando accarezza i ricordi nella bella, acustica e dolente “The Last Carnival” (due funamboli, due polsi che a un certo punto non si trovano più, due amici per la vita separati dalla morte: Bruce e Danny Federici) è uno Springsteen tutto sommato normale, colto qualche centimetro sotto le aspettative (ma due sopra la media dei suoi colleghi coetanei).
L’errore sarebbe volerlo sempre speciale, chiedergli di restituire a noi e a lui stesso l’età che tutti avevamo ai tempi di The River.
Quella è cosa che nessun musicista sa fare.

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