lunedì 23 febbraio 2009

BONOLIS E SANREMO: A qualcuno piace "milionario"


Nel giorno in cui The Millionaire si porta a casa otto Academy Award, che da noi si chiamano più folcloristicamente “le statuette dell’Oscar”, cala defiinitivamente (definitivamente?) il sipario sulla settimana che ha incoronato Paolo Bonolis re di Sanremo. Sembrava poco probabile che il presentatore riuscisse a migliorare il suo Festival del 2005, eppure ci è riuscito e gli va dato merito. Se mi avessero preannunciato la presenza, sullo stesso palco, di Kevin Spacey, Todd Rundgren, Nathan East, Katy Perry e Burt Bacharach avrei pensato ai Grammy Awards. Se avessi letto, tutti in fila, i nomi di Gino Paoli, Roberto Vecchioni, Pino Daniele e Roberto Benigni mi sarebbero venute in mente edizioni passate del Premio Tenco (la prossima volta perchè non Tom Waits a cantare di nuovo col toscano, visto che ora sembra tutto possibile?). Se mi avessero detto che Riccardo Cocciante avrebbe cantato in prima serata “Quando finisce un amore” e che in diretta dalla platea dell’Ariston, di fronte a dodici milioni di spettatori, avrebbe avuto diritto di parola il presidente onorario dell’Arcigay Franco Grillini non ci avrei creduto. A tante altre cose non avrei creduto, ad esempio che tra i “giovani” avrebbe trionfato una ragazza priva di quei requisiti estetici richiesti per l’ammissione ai reality show.
Per rimanere sul terreno della musica, e per dire ancora della bravura e dell'irresistisbile simpatia di Arisa, mai avrei creduto che nella sezione “nuove proposte” avrebbe sbancato un pezzo retrò accompagnato dalla steel guitar (c’era sul palco, e ancora di più nella versione da disco, verificare pure) che è prerogativa della country music. Certo, la stralunata cantante lucana e la steel guitar sono quanto di più distante possa esserci dal terzetto dei ”big” vittoriosi. Ecco l’unica nota dolente: il podio, quello del sabato sera. Forse il prezzo da pagare per avere tutto il buono precedentemente elencato era ritrovare lassù Marco Carta, Sal Da Vinci e la canzone troppo derivativa di Povia (vedi Cristicchi, Waterboys, Povia stesso) consegnati agli annali del Festival. Ma di questo non si può dare colpa a Bonolis, che per garantire varietà e interesse alla rassegna doveva prevedere anche la presenza di un teen idol e di un neo melodico, nonchè di un tema - quello di “Luca era gay” - che suscitasse curiosità e scatenasse polemiche, ingredienti base di ogni trasmissione televisiva che ambisca a un certo tipo di successo.
Poi l’Italia del televoto è quella che è e ce la dobbiamo tenere, purtroppo.
Ma altre due Palme (quarto e quinto posto) è d’obbligo assegnarle. Una a Pippo Baudo per aver fatto la storia del Festival e per aver accettato di condurre con misura(polemica Mina/Puccini a parte) e professionalità la sua “Domenica In – Sanremo” dallo stesso palco che la sera prima aveva suonato la marcia trionfale per il suo successore. L’altra alla battuta dell’anno (Benigni): “Sono rimasti in due che mandano filmati: Mina e Bin Laden”.
Il Milionario, in queste ore da Premio Oscar, è Bonolis, che sembra aver messo tutti d’accordo.
Ci riuscissero mezza volta i politici, in quest’Italia di canzonette!

martedì 17 febbraio 2009

ON VALENTINE'S DAY, BRUCE AND THE NEW SONGS



I'm driving a big lazy car...


On this past Valentine's day I started to like some of the new songs a
lot. No, wait a minute, I am starting to actually "love" some of the new songs a lot.
I always loved that "Tunnel of love" final track. Valentine's Day, what a nice ending. Just like "Drive all night" it's the quintessence of the romantic Bruce Springsteen.
That "love & sadness" bittersweet kind of feeling that pervades some of the best Bruce's ballads it's something that for me speaks as loud as any great BS rock'n'roll song. Simply couldn't do without it. Couldn't
do without "Fade away", "I wish I were blind", "I wanna marry you", "Back in your arms" and stuff like that.
It's not exactly what brings eighty thousand people to fill a Spanish
stadium for two nights in a row (and that's still a great thing to
witness) but it's there, it's a value, I can't forget that my love and
admiration for Bruce is built around those kind of songs as well
as "Born to run".
"Working on a dream", the album, is filled with joy and I hear many
people disliking the album 'cause of that.
Even though I'll never forget how the rage in "Darkness" and "Nebraska" songs spoke to me when I first heard them, I am open to give credit to the happy Bruce. What's wrong about being happy with your life and to show a great hope in your country's future?
I loved and love pop music as much as I love rock'n'roll.
I need the energy and rhythm of "Great balls of fire" as much as I need Roy Orbison's dramatic and melancholic falsetto.
I need the rough edge of some Rolling Stones songs as well as the
sweetness of the Beach Boys harmonies.
I need the highway and the beach.
I need "Raw power" and "Fun fun fun".
Driving my "big lazy car rushing up the highway in the dark" I was
hearing the new songs again and again and thinking that every woman, especially on a Valentine's Day, would love to have somebody writing and singing "This life", "Kingdom of days" and "Surprise, Surprise" for her. I do like to have them on a disc. I appreciate the passion that Bruce brought into crafting those incredible harmony vocals for his newly written songs.
They are not "Thunder road", everybody knows that, including Bruce, but I want to thank him for bringing his happy soul to the studio and for not forgetting his favourite 45's from the Sixties.
I think "Girls in their summer clothes" won a Grammy for this reason,
and the new album - or the most part of it - started from where that
brilliant song ended.
My hope for the tour is that Bruce and his camp would create a live
show that could be unique and strongly connected with this album. Just like the beginning of the 1988 tour was. Something that would be
coherent with the new musical approach.
The size of the tour and the way it is shaped (see: stadiums and
festivals) clearly works again any drastic change in either the whole stage setting and the band's line up (why don't bring the horns back on the road? or why don't add a small string section to the ESB? or how 'bout some proper background vocalist, a la Roy Orbison's "Black & White Night"?).
Sure, Bruce is still adding new songs to every tour, but I
can't help but thinking that "in some fashion" I've been watching the
same show for the last ten years.
It was a lot of fun, Bruce, but how 'bout a little "surprise, surprise"?

...I got one hand steady on the wheel
and one hand's tremblin' over my heart

lunedì 2 febbraio 2009

BRUCE SPRINGSTEEN: WORKING ON A DREAM, il sogno pop della E Street Light Orchestra. E il popolo del Boss si divide.


Ryan Adams, 34 anni, qualche discreto album e nessun capolavoro alle spalle, ha avvisato i fan dal suo blog: “lascio la musica, potrei tornare, ma non ne sono affatto certo”. Bruce Springsteen, 60 anni dietro l’angolo, qualche discreto album e diversi capolavori, pubblica il suo ventiquattresimo disco non senza fiatone ma è qui, a giocarsela su quel terreno che è suo da una quarantina d’anni.
Questo non è un paragone tra il Boss e il giovane Ryan (non Bryan), al quale va dato il merito di aver scritto buone canzoni e di aver provato tutte, ma proprio tutte le strade per realizzare un album da vero Boss: é un modo per spiegare quanto sia difficile, nel mondo della musica, restare competitivi a lungo.
A voler tirare in ballo due grandi, equiparabili a Springsteen per statura artistica, si può evidenziare come sia Bob Dylan che Neil Young abbiano alle spalle paurose oscillazioni. Da un trentennio almeno, quando si parla di album registrati in studio per loro si alternano segnali di giubilo, il pollice verso, entusiasmi e indifferenza: accade di tutto, ormai è la normalità. La normalità, forse, per due artisti che ci hanno preparati a tutto, saltando tra divagazioni elettroniche (lo Young di “Trans”) e incolori album di cover (Bob, nei giorni di “Self Portrait” e “Dylan”), non per Bruce Springsteen, che come i colleghi tiene vivo il suo mito suonando sui palchi di tutto il mondo ormai quasi incessantemente ma che a differenza loro finisce sempre sotto i riflettori quando pubblica nuove canzoni.
Da noi in Italia, addirittura, arriva puntualmente, da vent'anni, al primo posto della classifica di vendita degli album.
Se Springsteen lascia ancora il segno ad ogni pubblicazione è per effetto della sua straordinaria capacità di rimanere in gara, al centro di quella competizione artistica che molti suoi coetanei illustri hanno abbandonato da tempo.


Quando sembrava voler affondare nuovamente la mano negli archivi, offrendo al suo pubblico nel trentennale di “Darkness On The Edge Of Town” (1978) un’edizione rimasterizzata di uno dei suoi dischi più belli (potenziata da un concerto e da un documentario già registrato, con Patti Smith a dire la sua su “Because The Night”), è arrivato l’annuncio di un nuovo disco, nuovo a metà, a ben vedere, perché presentato esplicitamente come una appendice di “Magic”.
Diciamolo subito: “Working On A Dream” è troppo complesso per finire da subito liquidato come l’appendice di qualcosa. Non è un capolavoro, ma un disco da attraversare con cognizione di causa e una giusta dose di rispetto.
Certo, presentarsi con un fumetto anziché una copertina e partire con un pezzo da otto minuti è quantomeno azzardato. Della copertina rispondano l’artista e il suo staff, gli stessi che approvarono l’indimenticabile scatto fotografico usato per “Born To Run” e che rifletterono per mesi proprio sulla grafica di “Darkness”. Sul pezzo non si apra un processo: poche volte Springsteen ha rasentato o superato quella misura (“Incident On 57th Street”, “New York City Serenade”, “Jungleland”, “Backstreets”, “Drive All Night”: parliamone!) e nemmeno “Stairway To Heaven” o “Hotel California” durano tanto, tuttavia “Outlaw Pete” è composizione rock, genuina e roots abbastanza da non far sospettare intenzioni lucrative. Poteva risolversi prima ma ha il merito di concludersi senza che gli occhi siano caduti sull’orologio, e poi sembra coincidere con le intenzioni di due Springsteen al di sopra di ogni sospetto: quello del pre-“Greetings”, che scriveva storie di pistole e malaffare (“He’s Guilty”, “The Ballad Of Jesse James”), e quello delle “Seeger Sessions” che ha nuovamente abbracciato il mondo dei fuorilegge (“John Henry”). Assolta a fatica, ma il tempo e il palco, se Springsteen deciderà di portarsela in tour, le faranno del bene.


Bruce non è tipo da cadute verticali. Ha lasciato perplessi ma mai sconcertati. Ha pubblicato dischi che potevano essere più concisi (i due del 1992, dai quali poteva trarne uno potenzialmente bellissimo, da metterci la mano sul fuoco; un album che avrebbe reso ancora di più se fosse stato suonato dalla E Street Band e non da musicisti di talento chiamati a percorrerne il solco) ma mai ha veramente tradito le aspettative dei suoi fan.
Oggi c’è da seguirlo nella sua evoluzione e nella sua lecita curiosità verso ciò che non ha fatto prima d’ora, c’è dunque da esplorare con affetto e interesse la strada che Springsteen è libero di permettersi.
“Thunder Road” su disco non la ritroveremo più? Pazienza, si era capito da un pezzo. Quando si stacca dalle assi del palco, dove tutto continua a funzionare a meraviglia, l’uomo di “Born To Run” cerca un’altra dimensione. È meno terreno, toglie il freno a mano all’immaginazione. E diventa più poetico. Osa. Sogna. Questa è la chiave di lettura per godersi in serenità il sedicesimo album in studio di un uomo che a trentasette anni dal suo primo disco è ancora oggetto di studio e accorate discussioni.


Fresco di Golden Globe (per “The Wrestler”, dal film con Mickey Rourke, bonus track ma punto più ispirato della raccolta), Bruce si presenta sotto un cielo di stelle che sembrano porporina. La giacca l’ha presa dal guardaroba che nemmeno Little Steven usa più. Tra i capelli, un riflesso biondiccio innaturale. Dietro c’è la luna. D’accordo, siamo nel limbo tra magic e dream eppure si poteva essere più sobri nel raccontarlo.


Va detto però che preso in mano e osservato da vicino, soprattutto nella sua versione de-luxe, che è più ampia, l’oggetto “Working On A Dream” smorza lievemente la diffidenza verso l’impasto cromatico della copertina e lo stile scelto per illustrare questo viaggio nel pop di un consolidato boss del rock.

Subito ci investe come già detto il brano di apertura e sono otto minuti da prendere o lasciare, un corpo quasi estraneo che tuttavia – e qui sarà necessaria un’analisi molto più approfondita, prevista anche per il resto dei brani (prossimamente su questo blog) – attraversa più la vita stessa di Springsteen che quella del precoce pistolero qui cantato. Un passo dopo "Outlaw Pete" arrivano “My Lucky Day” (media statura, da quinto disco di “Tracks”) e “Working On A Dream” (rinfrescante fischiettata pro Obama in stile Roy Orbison voltata a guardare quei 60 – dei Kennedy, di Pete Seeger e di Martin Luther King – per l’America mai più tornati), e il fatto che sembrino di seconda mano, ovvero che siano state offerte al pubblico in più modi prima dell’uscita ufficiale, smorza un po' la nostra curiosità.
Anche qui il tempo sarà galantuomo e consentirà alle due canzoni di finire riassorbite dall’album che le ospita dopo essere state veloci e improbabili singoli online (ma perchè poi chiamarli singoli, ormai sono fugaci apparizioni da rete, anticipazioni elettroniche senza più cuore nè copertina).

E’ quando si giunge a “Queen Of The Supermarket” – incedere classico, pianoforte e glockenspiel, tenerezze da E Street Band di un tempo e complesse elaborazioni vocali – che scendono in campo, col motore del disco già caldo, tutti gli elementi che divideranno il popolo springsteeniano. Si apre qui un mondo di non facili compromessi tra un deciso sapore rock (marcatamente alla Tom Petty quello di “What Love Can Do”, con cori in stile Byrds che affiorano anche altrove) e un rischioso pastiche pop con la bussola che sterza verso la California dei surf incrociando abbastanza spesso certe orchestrazioni marcatissime che sono sempre state una prerogativa dei gruppi anni Sessanta (ecco il vero riferimento di questo Springsteen anni Duemila che gioca a tuffarsi nei ricordi).
Altra spiegazione è che al contrario di “The Rising”, che trasudava smarrimento e cordoglio, questo lavoro presenta una maggioranza di brani che invitano ad accettare la vita per quella che è, celebrandola con un sorriso. È un disco felice che indugia sull’amore. La politica è una eco lontana, è lambita, forse volutamente silenziata.


L’impasto creato da Brendan O’Brien (che sembra avere esaurito un ciclo) è avvincente ma può stordire. L’orecchio attento ci scoverà i Beau Brummels, i Left Banke, i Monkees e i Kinks. La sponda dei diffidenti e dei meno riflessivi avanzerà il sospetto che questa volta, partendo dai Beach Boys come accadde in “Girls In Their Summer Clothes”, si sia presa la deriva che porta a Jeff Lynne. In “This Life” (e non solo) c’è la E Street Light Orchestra? Nessun problema: è bellissima, quel prologo alla Bacharach è un incanto imprevedibile che abbracciamo con ricambiato incanto, anche perché con la frase «a blackness then the light of a million stars» («buio pesto, poi la luce di milioni di stelle») ben spiega la copertina, il mood dell’autore, il senso del disco e le aspettative del mondo dopo Obama.

Intromissioni d’archi alla Beatles e chitarre che fanno sognare appaiono anche in “Kingdom Of Days” (ampollosa ma convincente e amabile almeno quanto “This Life”) e “Surprise, Surprise” (che a un certo punto cita “You Got It” di Orbison: quindi tutto torna, anche Lynne). Ormai libero dall’obbligo di dover sempre offrire un concept o di cercare un suono unitario, l’autore svolazza, ondivagante e sovente con approccio vocale vagamente tenorile, tra i “singoli” della sua adolescenza e tra i tanti Bruce che ci hanno intrattenuti negli ultimi tempi. Ne raccogliamo in frutto anche l’elegante e composta “Life Itself”, il blues tutto jersey devil di “Good Eye” e l’ottimismo country di “Tomorrow Never Knows”. Anche quando accarezza i ricordi nella bella, acustica e dolente “The Last Carnival” (due funamboli, due polsi che a un certo punto non si trovano più, due amici per la vita separati dalla morte: Bruce e Danny Federici) è uno Springsteen tutto sommato normale, colto qualche centimetro sotto le aspettative (ma due sopra la media dei suoi colleghi coetanei).
L’errore sarebbe volerlo sempre speciale, chiedergli di restituire a noi e a lui stesso l’età che tutti avevamo ai tempi di The River.
Quella è cosa che nessun musicista sa fare.

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