venerdì 15 maggio 2009

RIGO: "Smiles & Troubles", il viaggio di un bassista. Dieci canzoni, quattro corde e "due mogli".


Antonio, Rigo Righetti, Rigo, Antonio Righetti: chiamatelo come volete, ma Rigo va meglio. Perchè è breve, asciutto, musicale, e perché è una bella fortuna avere un marchio che ti rende quasi unico (pensare a Elvis e Bruce, tanto per dirne due ai quali Rigo non è indifferente e sui quali ne sa un bel po’). Poi, fatevi i conti, R.I.G.O, fanno quattro, quattro lettere, come “bass”. Lui e il basso sono una cosa sola, da un bel pezzo di vita, e tra loro c’è l’intruso, o la seconda moglie (perché Rigo naturalmente è bigamo): Robby Pellati, di professione batterista.
Succede tutto in “Smiles & Troubles” (Irma Records), prova numero due (c’era stato il mini “Songs From A Room” qualche anno fa) di una carriera da solista iniziata quando Rigo era già, con Robby (naturalmente), il motore di Luciano Ligabue. Tappe precedenti, in Italia, erano state per entrambi quella nei Rocking Chairs (tra Modena e Reggio, importante perché ha davvero messo le basi a tutto), e quelle al servizio delle canzoni di Edoardo Bennato (fugace) e Marco Conidi (concerti e un brano su disco, “Un passo via da te”, cover di “One Step Up”, venuto bene davvero, con l’apporto di un altro Chairs: Giorgio Buttazzo).


Rigo racconta, e posso confermarlo, di camere quadruple, poi triple, diventate improvvisamente comode singole, in quel salto dal rock'n'roll di provincia con puzzo d'America alle 4 e 5 stelle da classifica del lusso garantito dal suo Boss più acclamato, quel Luciano Ligabue che, come usa talvolta nel rock’n’roll, a un certo punto ha voluto continuare il viaggio da sé e “ha messo via” i cilindri cromati di Rigo e Robby per cambiare motore. Ecco che nella strada lastricata di esperienze di ogni tipo e collaborazioni con nomi che al pubblico del rock più genuino dicono molto (The Gang e Mauro Pagani in Italia, Elliott Murphy, Robert Gordon e Willie Nile dove capita) sono tornati d'attualità gli alberghi a due e tre stelle, che in questo lavoro significano due metri quadri di bagno in meno, niente servizio in camera ma un chilometro di strada libera in più.
Se l’è presa tutta, Rigo, quella strada e ci ha messo le sue idee e il suo gusto, senza commettere l’errore di confezionare un disco per i vecchi appassionati dei Rocking Chairs né per l’esercito da stadio che canta a memoria ogni canzone che passa la radio al Bar Mario. Ci ha messo dentro le letture che ama, i bei film che ha visto, i viaggi, gli anni passati ad ascoltare la musica (cosa utile per migliorarsi, perché non basta fare come in Italia fanno quelli bravi “ma bravi un bel pò”, non basta solo suonare). L’ha inzeppato, questo disco, delle cose che ha imparato quando vendeva, in un buco di quelli che non esistono più, i dischi dei musicisti che apprezzava. Ne è venuto fuori un lavoro ambizioso e atipico, un disco da cantautore rock che non suona da cantautore rock, perchè non è prodotto come lascerebbe supporre il curriculum di questo musicista curioso e di Pellati (a cui si aggiungono qui Marco Montanari, chitarrista di ruolo, e pochi pochi ospiti, tra cui Pagani).


“Smiles & Troubles”, registrato e missato tra Correggio e El Paso, Texas (davvero tra la Via Emilia e il West, mica chiacchiere) brilla perchè mai prevedibile, nè banale. Lo si capisce da come inizia “A Girl Called You”, con quell’organo che parte quando invece ti aspetti la voce, una voce con la quale Rigo, che è e resta un eccellente bassista prima di essere un cantante, fa un lavoro onesto ed essenziale, senza puntare a convenienti modelli visibili o a canoni imposti. Qui di imposto, e di conveniente, non c’è nulla, lo capisci da quella love-song un po’ fifties – “Stay” - che viene lanciata nello spazio dei Duemila da un lavoro di voci in retrovia e di programmazioni abbracciate a un malinconico violino. Lo capisci quando le chitarre lontane di “I Love You” ricordano i primi R.E.M. e non gli U2 dei grandi tour. Ne sei certo quando l’incedere di “(Just Like) St.Thomas” più che al mainstream rock che è stato la prima casa per Rigo negli ultimi vent’anni (ma qualcosa riecheggia nell'ottima "The Wrong Side Of Everything”, con quel basso “bello fuori”, così “Rigo”, così "Rocking Chairs") fa pensare a un bizzarro ma gustoso incrocio tra l’Europa dell’est e i Los Lobos più sperimentali (la ritmica, e quella chitarra twang che suona sul canale sinistro). “Lonely Winter”, “All I Really Want” e le altre, sono canzoni pensate e scritte nell’intimità, ricolme di sentimenti personali, tra riflessioni, amore per la donna amata e quel senso di libertà che ti lasciano sempre le esperienze importanti appena concluse.

C’è sempre, qui, un protagonista che si dibatte tra la dolcezza e l’amarezza, che poi sono componenti inscindibili della vita, su quella strada che percorriamo ogni giorno. Non c’è da credere completamente a Kerouac, uno che la strada la conosceva bene, e a quelle sue parole: “Mankind is like dogs, no gods”. Però un bel po’ di verità da lì’ arriva ancora, perché - a chiunque, ovunque e sempre - dopo una carezza è facile che la vita assegni un paio di morsi alle caviglie. Ecco allora Kerouac e gli altri. Rigo, dopo aver realizzato un disco ispido e morbido come la vita, accattivante ma perfettibile, cielo azzurro e nuvole, “sorrisi” e “preoccupazioni”, quelli bravi a mettere insieme le parole (Pavese, Miller, Pessoa, Kerouac) se li porta dietro anche nei live show. “Musica e readings”, potrebbe esserci scritto qualche volta sulla locandina. Canzoni di "love and hate" insieme a fogli strappati scegliendo bene. Cose che negli stadi non si possono fare. C’è un prezzo per tutto. Cosi si torna ai piccoli club, con una sacca piena di idee e i sogni non ancora consumati. Tanti auguri.

Acquista il disco: www.msol.biz/

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Il Rigo Righetti Trio (Righetti+Pellati+Francesco Pugnetti) gira l’Italia (questa sera, 15 maggio, è di scena a Roma, al Caffè Fandango, vicino Piazza del Pantheon) con le canzoni di “Smiles & Troubles” + Elvis, Robert Johnson, Leonard Cohen and more. Altro piattino niente male che vedrà Rigo tra i protagonisti è un giro di concerti estivi con Steve Wynn (Dream Syndicate), Chris Cacavas (Green On Red), Linda Potmon (Miracle 3) e altri. “Wynn plays Dylan” sembra molto di più di un “very special project”, come annuncia Antonio. E’ troppo bello per essere vero. Sarà agosto – “Antò, faaa caldo” – ma un pensierino…

Live gigs and more www.myspace.com/rigorighetti

lunedì 11 maggio 2009

JACKSON BROWNE: Un tempo sognato che bisognava sognare.


Impresso su una sacca in tela (“Saturate Before Using”, 1972, l'esordio), di profilo in versione ancora giovanile (“Hold Out”, 1980), pronto a spuntare dalle acque torbide di una relazione sentimentale difficile (“I’m Alive”, 1993, con ritratto d’autore di Bruce Weber), in controluce a guardare con preoccupazione verso est (“Looking East”, 1996), o - ultimamente - con barba cresciuta e occhiali da sole a proteggersi dai segni del tempo che conquista tutto (“Time The Conqueror”, l’ultimo di una lunga serie di album dalla poetica sempre elevatissima): il volto di Jackson Browne ha sempre rivelato senza mezzi termini, dalle copertine, dove si trovasse l’uomo, con i suoi sentimenti, prima ancora del fine songwriter.


Questa capacità di smascherarsi prima di iniziare a cantare è sempre stata la prerogativa di questo autore californiano (classe 1948) a cui il tempo sembra risparmiare quei colpi che stanno progressivamente allontanando alcuni suoi coetanei dalle scene. Perché è sempre lì, pure se aggredito da qualche capello bianco, quel classico caschetto da surfer che fa pensare alle onde e alle palme, ai Beach Boys e a “Fragole e Sangue”, alla Woodstock generation e a quando anche i Byrds cedettero alle frangette “alla Beatles”, ed è sempre più bello il canzoniere che Browne porta in giro dal vivo, mescolando ad arte le stagioni della sua creatività, tra amore e politica, chitarra e pianoforte, zone d’ombra e colpi da classifica. Sono briciole di un’iconografia andata, che per qualcuno è polverosa, ma per altri decisiva. Ieri sera uno degli auditorium progettati da Renzo Piano per la “Città della Musica” era gremito di quarantenni (questa la media, a voler stare stretti con la calcolatrice) che l’anagrafe segnala come romani con il cuore tra Los Angeles e il Big Sur. Tutti a sentire questo eterno ragazzo che gira in auto per Santa Monica ascoltando la musica di Ben Harper, che porta i suoi musicisti a Cuba con un visto religioso, che ancora si indigna per le cose che nel mondo non funzionano e che dal suo sito non vende t-shirts ma consiglia la lettura di libri come “The Reclutant Fondamentalist” di Mohsin Hamid, ovvero l’America vista dagli occhi di un giovane pakistano. In platea, c’erano quelli che presero il caldo a Castel Sant’Angelo nel 1982, quando Browne portò per la prima volta canzoni e band nel nostro paese, e quelli che senza essere presenze fisse quando Brother Jackson scende da noi lo seguono con affetto quando possono, cercando di comprendere le nuove canzoni che pubblica con la stessa attenzione riservata a “Before The Deluge” e “For Everyman”.


E c’erano anche – ad abbeverarsi a quella fonte west coast che oggi, con tre neri nella band su sette (ottimo davvero l’innesto delle coriste Chavonne Morris e Alethea Mills), offre anche magnifiche tracce di gospel e soul - quelli che lo avevano idealizzato per una vita senza mai incontrarlo. Tutti raccolti a seguire il filo della memoria e a passeggiare tra canzoni che al “tempo”, quello scandito dalle lancette di un orologio, hanno sempre guardato con occhio attento. Da “These Days” a “Late For The Sky”, da “The Times You’ve Come” a “Baby How Long”, c’è sempre in quello che scrive Browne un tempo da aspettare, da rincorrere e da temere perché vuol dire che la vita si sta consumando non senza un filo della speranza che ci lasci intravvedere un futuro migliore. Ma c'è, più di ogni altra cosa, quel tempo bello che nessuno potrà portarsi via. E chi ha sognato, o viaggiato, almeno una volta con le canzoni di Jackson Browne, quel tempo prima o poi, sia pure per la durata di una sola sera, torna a riprenderselo, come accaduto ieri. Per rubare le parole a Fossati, potremmo dire che si tratta di quel “tempo sognato che bisognava sognare”, un tempo “che sfugge” ma “niente paura che prima o poi ci riprende”.
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La scaletta della serata (Roma, 10 maggio 2009)
Primo set: Boulevard/The Barricades of Heaven//Fountain of Sorrow/These Days/Time the Conqueror/Off of Wonderland/Live Nude Cabaret/Giving that Heaven away/Doctor my Eyes/About my Imagination
Secondo set: Something fine/For a dancer/Before the Deluge/Late for the Sky//Lives in the Balance/Going down to Cuba/Just say yeah/Late for the Sky/The Pretender/Running on Empty
Bis: I am a Patriot (Little Steven)-It's Your Thing (Isley Brothers)/The Load Out-Stay (Maurice Williams & the Zodiacs)

Questa sera, 11 maggio, Jackson Browne e la sua band - Mark Goldenberg, Mauricio Levak, Kevin McCormick, Jeff Young, Chavonne Morris (foto) e Alethea Mills - concederà all’Auditorium Manzoni di Bologna l’ultima sua replica italiana (dopo Milano, Padova e Roma) prima di andare a chiudere il “Time the Conqueror – European Tour 2009” alla Royal Albert Hall di Londra.

venerdì 8 maggio 2009

WILLIE NILE: Nella "casa delle mille chitarre" non ci sono corde spezzate. Il nuovo album e il tour italiano dell'amatissimo rocker newyorkese.


Pochi minuti fa, un amico che ieri sera era come me tra il pubblico del concerto romano di Willie Nile al Big Mama, e che aveva lì acquistato la ristampa con inediti di un vecchio disco del rocker newyorkese, mi ha scritto: “Che bel disco, che canzoni, e che suoni. Se Willie non è venuto fuori con quello, vuol dire che non era destino”. Quel disco è “Places I Have Never Been”. Uscì nel 1991, dopo anni in cui, dopo essere stato tra i tanti nuovi Dylan e nella nutrita truppa dei nuovi Springsteen, ed avere anche aperto, forte di due album bellissimi pubblicati all’inizio del decennio precedente, i concerti americani degli Who, Willie aveva per più mitivi messo il freno alla sua esuberanza artistica. In quelle sue composizioni, nuove ma covate a lungo, aveva riversato tutte le proprie capacità e le proprie speranze. Canzoni alla Byrds (“Rite of Spring”, con Roger McGuinn), potenti rock a sfondo sociale che strizzavano l’occhio agli U2 (“Heaven Help the Lonely”), folk elettrici ma con lo spirito di Pete Seeger (Everybody Needs A Hammer) e ballate che pochi scrivono così bene (“Yesterday’s Dream”), non erano serviti più di tanto a consegnargli le chiavi di quel mondo di cantautori rock in cui centrali erano Springsteen, Tom Petty e, allora, Steve Earle. Piuttosto, e non è un risultato affatto disprezzabile, hanno tolto il freno alla carriera di un autore di immenso talento che sembrava essersi perduto tra le strade della sua New York.

Da allora, da quando quel piccolo motore di poesia e canzoni ha ripreso a girare, anche con il conforto dell’attenzione di un pubblico europeo che dai primi Novanta se l’è coccolato (ricambiato) come merita, Willie Nile ha messo insieme una fila di album (non tanti, né pochi, il giusto: un mini e tre in studio, più un paio di live, l’ultimo dei quali – “From the Streets of New York” - accompagnato da un bel dvd) che non hanno mai deluso chi lo segue con attenzione. “House of a Thousand Guitars” ha sorprendentemente le stesse caratteristiche di “Beautiful Wreck of the World” (1999) e “Streets of New York” (2006): è ricco di passione e speranza, nonostante gli anni passino e la forbice del futuro professionale vada inesorabilmente restringendosi per questo generoso attore della scena rock più sincera e sanguigna. Nile ha ancora intatta quella voglia, già espressa da “On the Road to Calvary” (un delicato ricordo di Jeff Buckley) e “The Day I Saw Bo Diddley in Washington Square” (cantata con Jakob Dylan), di guardare con ammirazione al lavoro di chi gli è passato accanto e non c’è più.


Celebra, come fanno anche le apparizioni live di questo minuto ma estremamente energico interprete, la grande e bella stagione di un rock’n’roll che sembra oggi aver lasciato la sua posizione centrale nel confuso e frammentato mercato dei Duemila. Basta ascoltare le prime battute del brano e leggere i primi versi per capirlo. “Non c’è occhio asciutto nella casa delle mille chitarre quando canta il vecchio Hank, di quella sofferenza che solo l’amore può portare/Puoi sentirci Bob Dylan e i Rolling Stones nella casa delle mille chitarre/e Muddy Waters e John Lennon/…non c’è una sola corda spezzata nella casa delle mille chitarre”. Scrive tutto ciò con la felicità, vera, di esserci ancora, da queste parti, a raccontare il bello che ha ancora da dire. “Benvenuti in quello che passa nella mia testa!”, grida all’inizio dei suoi concerti, prima di eseguire la vecchia “Welcome to my Head”. “Attenti a quello che succede adesso!”, esclama prima di attaccare, sul palco, un medley dei Ramones, accompagnato dalla sua band europea che lo sta accompagnando in tour (Jorge Otero + Rigo&Robby).

Nile appare immerso nel suo viaggio attraverso le radici del rock’n’rol che tanto lo ha nutrito, ma apre sempre qualche finestra su quel mondo che sta stretto a molti e che tutti vorremmo migliorare. Quando ripropone oggi “Across the River” col solo pianoforte, ricorda di averla scritta “circa trent’anni fa, dopo aver visto sul New York Times l’immagine di una donna africana piegata in terra col suo bimbo morente sulle spalle”; nel presentare “Back Home” manda un pensiero a chi una casa per ora l’ha persa (il riferimento è agli amici abruzzesi, che a l’Aquila, in un delizioso locale del centro storico oggi distrutto, ospitarono il suo primo concerto italiano nel 1992).


Il disco non manca di episodi che dispensano ancora l’energia giovane del rock’n’roll: “Run”, piacevolmente sospesa tra la ruvidità dei Clash, il candore di Buddy Holly e la fluidità dei migliori Heartbreakers, ne è la dimostrazione (“Ho il battito dell’universo che mi fa esplodere le vene/il suono della stratosfera che rimbomba nel mio cervello/ho i colori dell’arcobaleno sulla mia tavolozza/fremo selvaggiamente quando aspetto te”), ma non manca il Nile meditativo che riflette sentimenti più contemporanei. E’ quello dell’intensa, matura “Love Is a Train * (la sua “Land of Hope and Dreams”) e di “Now that the War is Over”, che col piano e un elegante accompagnamento dove eccelle il violoncello di Christopher Hoffman, urla a bassa voce parole di ficcante disprezzo per il governo americano uscente. Tutti i colori di Willie Nile sono qui, nella casa delle mille chitarre che ha anche lampi di speranza, come Give Me Tomorrow” da cui è un piacere lasciarsi attraversare (“sono stato sotto la pioggia battente/…in un mondo strano un bel po’/dove però ho visto le cose cambiare/consegnami il domani, adesso”).

Qualcuno manometta il calendario, fermi il tempo e faccia che Springsteen abbia composto, non dico tante, ma almeno due di queste canzoni (facciamo "Run" e "When the Last Light Goes Out on Broadway"), e le abbia incluse in Working on a Dream. Facciamo?
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Nile sta girando l’Italia, dove conta di tornare in estate per alcuni festival. Per ora il domani inizia stasera, con due repliche a Montale vicino Modena (8 maggio – La Palafitta) e a Bergamo (9 maggio – Auditorium di Piazza della Libertà). Insieme a questo sensibile artista, che dal vivo sa comunicare come pochi e che mantiene ancora ben saldo un posto tra quelli che sanno raccontare la vita con la semplicità dei grandi, un trio d’eccezione. Perché Jorge Otero (chitarra, ma in studio è anche mandolinista e bassista) ha già suonato per Elliott Murphy, e Rigo & Robby, ovvero Antonio Righetti e Robby Pellati sono gli ex Rocking Chairs e a lungo sezione ritmica di Ligabue che già accompagnarono Nile in Italia in tour anni fa. Di Rigo, che apre lo show con canzoni dal suo recente “Smiles & Troubles”, parleremo nei prossimi giorni.