venerdì 26 giugno 2009

AIN'T NO SUNSHINE: è morto Michael Jackson


Michael Jackson me lo voglio ricordare con la faccia che aveva quando l’ho conosciuto. Accadeva nel mio primo viaggio americano, anno 1974, in un’America dove c'era ancora la Motown e in cui ero finito, tredicenne, ad accompagnare mia madre e i miei nonni in un viaggio meraviglioso – un’iniziazione, è il caso di dire - che ci avrebbe portati a Manhattan, a Boston, alle cascate del Niagara, ma anche ad Albany e Rochester perché è America anche quella. Compravo dischi con frenesia, quasi compulsivamente, già allora, risparmiando sui vanilla ice cream. Ricordo che misi in valigia i miei primi trofei americani: un copricapo paracolpi in plastica dei Pittsburgh Pirates, una palla da baseball firmata da mio cugino Dave Giusti (che dei Pirates era stato un pilastro negli anni Sessanta), una mazza in legno della Adirondack e un sacco di 33 giri.

Conservo ancora tutto: la palla quando il mio conto va in rosso sono tentato di metterla su Ebay (anche perchè riporta una serie di dati tecnici di quel memorabile Pirates-San Diego Cardinals del 18 maggio 1969), i dischi no. Casomai li ricompro in cd. L’ho fatto anche per “Got To Be There” (1972) di Michael Jackson un sacco di tempo fa perché il vinile, sul quale c’è ancora l’adesivo “consigliato da Diana Ross”, gracchia che è una bellezza.

Mi fece simpatia quella faccia negretta. Ricordo che un altro mio cugino più grande, a Seneca Falls, suonava a ripetizione “Ain’t No Sunshine”: la trovai bellissima e uscii a comprarmi il disco. Che è bellissimo perché non c’è solo il pezzo di Bill Withers, ma anche “Got To Be There” e la più bella “You’ve Got A Friend” che si possa ascoltare. E’ un Seventies soul ancora incontaminato, quello dei capelli afro e delle macchine gigantesche. Niente incisivi d’oro, collane da un chilo e tatuaggi ostentati come usa oggi tra le star del rap e del Nu Soul. Michael era candido e pieno di fratelli che cantavano bene come lui. Vederli in televisione era una poesia. Poi, dopo essere diventato il re del pop con canzoni belle ma già diverse ("Billie Jean", "Thriller", "Human Nature" e tutto il resto), è diventato Jacko e di candido c’era solo la pelle, al cui sbiancamento Jackson lavorava ossessivamente. Così, quando ha iniziato a mostrificarsi è stata un pena che non mi interessava partecipare. Mascherine sulla bocca, i tanti misteri di Neverland e quei figli bianchi come lui che forse non hanno mai ascoltato un disco dei Jackson 5 perché era patrimonio dell’altra vita, quella - chissà perché - rifiutata.

Michael Jackson è morto qualche ora fa. Così, io che sono un romantico, ho rimesso su "Got To Be There", con tutte quelle orchestrazioni e quelle ingenuità. Mi fa pensare che anche grazie a queste canzoni non sono finito a lavorare in un Ministero. Ce n’è una, carinissima, che non ricordavo. Sembra di ascoltare le Zie Supremes di "Baby Love" e fa anche scappare la lacrimuccia, perché si intitola “Love is here and now you’re gone”.

Love, Michael. E cerca di non sentirti troppo solo anche lassù.