mercoledì 19 agosto 2009

FERNANDA PIVANO (1917-2009): l'ultima traiettoria di una "shooting star"



“Seen a shooting star tonight
And I thought of you.
You were trying to break into another world
A world I never knew”. (Bob Dylan)

L’estate, che strana l’estate. L’estate è di brutte partite di calcio dalle trame ancora acerbe, e di morti – almeno quest’anno – che ti sfiniscono quanto il caldo. Ho recentemente postato a fatica in questo blog dei brevi ricordi di Michael Jackson e di Willy De Ville, due tipi diversi tra loro, diversi che di più non si può. Ma a ognuno, tanto all’indecifrabile Jacko quanto a quel goloso di vita che era De Ville, è legato un pezzo della mia vita, un ricordo personale, un momento che – come loro – non tornerà. Non ho fatto in tempo a prendere atto della morte di quel grande della chitarra che è stato Les Paul (dove sarebbero oggi Jimmy Page e tanti altri senza lo strumento, la Gibson Les Paul, che lui ha plasmato assegnandogli il proprio nome?), che un altro pezzo di storia della musica e della letteratura se ne va. Due vecchietti, si dirà, “avevano dato” – 94 anni lui, 92 lei – ma che perdite colossali! Note e parole che a dispetto della morte resteranno aggrappate a questa vita.

Fernanda l’ho conosciuta. E’ stata una di quelle cose belle, stella luminosa e improvvisa, che ha attraversato il mio cielo quando avevo l’impressione che lassù fossero solo nuvole. Nel grigiore di anni in cui mettevo al servizio della discografia (era una major, di quelle che ancora resistono) la mia straripante passione per la musica e uno spesso inutile entusiasmo, poteva accadere di trascorrere qualche ora con Fernanda Pivano, quella che ha tradotto Hemingway e reso più comprensibili dalle nostre parti le prime canzoni di Bob Dylan.

Fa niente che dovevo sobbarcarmi imbarazzate telefonate per chiedere ai giornali spazio per improbabili e cinguettanti star. Fa nulla che pensavo e dicevo che Morgan era un talento incompreso (eravamo in pochi, ma ci credevamo) e dall’altra parte – che poi in realtà era o doveva essere la “mia” parte – si facevano spallucce. E pazienza se non si rispondeva più al telefono agli artisti il cui singolo non era piaciuto alle radio. Un giorno arrivava nella tua vita Fernanda Pivano (o Fossati, o Dylan, o qualcun altro) e il cielo cambiava colore.

Succede – passo al presente, per sentirmi di nuovo un po’ lì, con lei – che mi chiamano i tipi della Minimum Fax. Hanno assoldato la Pivano per alcuni lavori editoriali, in più lei deve scrivere per un quotidiano qualcosa su Dylan, che è di scena a Roma, tra i marmi bianchi del Palazzo della Civiltà e del Lavoro. Dieci anni fa, o poco più. Me la affidano, o quasi. Lei è puntuale, la scorto giù per le scale, rallentiamo per un saluto a Francesco De Gregori, poi dritti fino al camerino di Bob Dylan, il “suo” Bob, che non vedeva da anni. Durante lo show lei resta seduta, e immobile, a viaggiare con i ricordi. Alla fine mi racconta brandelli di vita, scorci eccezionali di un mondo che non vedo più, e mi chiede se l’indomani potrà disturbarmi per chiedermi qualche dettaglio del concerto e per dettarmi, successivamente, il pezzo che dovrà mandare al giornale.

Quando mi chiama è stanca ma affabile, dice che la musica la tiene viva e che ogni dieci libri prova a comprare un disco ma non sa mai dove dirigersi. Non la rivedrò più, anzi la scorgerò in un video di Ligabue, “Almeno credo”, dove lei sarà il più prezioso dei cammeo, incastrata tra parole intelligenti (“credo nel rumore di chi sa tacere”) e qualche citazione Sixties (il mitico furgone Volkswagen e quei cartelli a farci leggere il testo, come accadeva in “Subterranean Homesick Blues” di Bob Dylan).

Tra quarantott’ore sarò a Cleveland, dove al Rock’n’Roll Museum sta per iniziare un lungo weekend di celebrazioni per il quarantennale di Woodstock. Sarà la festa di quell’America che è arrivata ed è stata compresa in Italia grazie alle sapienti e appassionate traduzioni di Fernanda Pivano. Ora che i suoi occhi, quegli occhi che si sono incontrati con quelli di Cesare Pavese, di Jack Kerouac e di Fabrizio De Andrè, si sono chiusi per sempre mi piace ricordarla con un suo limpido e speranzoso commento di metà anni Sessanta colto dopo un concerto di Bob Dylan, del “suo” Bob Dylan:

“Che emozione, che orgoglio, che felicità quella sera a San Francisco, in attesa del concerto di Bob, quando Allen (Ginsberg) mi aveva portato in un bar, davanti a un piccolo jukebox ad ascoltare ‘Mr. Tambourine Man’. Ginsberg mi aveva spiegato che finalmente il loro, il nostro messaggio, era esposto senza poter suscitare interventi della censura, e i nostri sogni sarebbero entrati nei jukebox di tutto il mondo. Le nostre speranze sarebbero state improvvisamente conosciute da tutti, e le nostre illusioni proposte a tutti”.

giovedì 13 agosto 2009

ERIC CLAPTON E STEVE WINWOOD: "Live from Madison Square Garden", il disco dell'anno?


I grandi dischi del rock’n’roll – “Pet Sounds” dei Beach Boys, “Revolver” dei Beatles, l’unico dei Blind Faith, “Transformer” di Lou Reed, “Born To Run” di Springsteen, “London Calling” dei Clash, “The Joshua Tree” degli U2, “Murmur” e "Automatic For The People" dei Rem e molti altri – sono un’anfetamina per chi ascolta certa musica da sempre. Ti tengono sveglio e vivo, nella speranza che miracoli del genere possano accadere di nuovo. Quanto ciò sia difficile è purtroppo sotto gli occhi e negli I-Pod di tutti. Stracolmi, questi ultimi (almeno quelli di chi appartiene alla mia generazione), di brani pescati da compilation, ristampe e dal meglio che il classic rock ha offerto e continua a offrire. Discorso di parte – si dirà – ed è vero, ma in questi mesi in cui l’appartenenza a qualcosa è identità urlata – si appartiene alla schiera di lettori di “quel” giornale, si cerca conforto in “quel” Tg, ci si guarda cercando di cogliere “quel” dettaglio che confermi la sensazione di assomigliarsi in qualcosa – la musica non può sfuggire alla regola: è una certezza, un marker che segnala i codici della nostra identità, o di quel che resta in questo diluvio di incertezza.


Un amico mi ha “prestato” il live di Eric Clapton e Steve Winwood perché non ce l’ho fatta ad aprire i pacchetti arrivati da Amazon: sono in vacanza! Attraverso un rapido passaggio dal cd al pc portatile, queste canzoni sono finite con mia grande sorpresa nel mio nuovo cellulare. La sorpresa ha a che vedere con il fatto che pur se gestisco con sufficente disinvoltura questo blog dovunque io mi trovi, resto pur sempre uno che guarda con sospetto agli articoli sulle nuove tecnologie, uno che piuttosto che leggere il libretto di istruzioni del nuovo hard disk recorder pagherebbe la stessa cifra investita per la prodigiosa macchina. Uno, insomma, che fa un sorriso di approvazione ogni volta che legge il titolo del blog “Torno ai vinili” del dirimpettaio, di rete e di musica, Maurizio Pratelli e che da anni respinge ostinatamente le richieste di acquisto della propria collezione di bootleg a 33 giri di Bruce Springsteen sebbene prenda polvere a tre metri dal pavimento. Avrete capito il soggetto, ma se siete arrivati fin qui, anche perché attratti dalla locandina in stile “anni Sessanta psichedelici”, siete abbastanza strutturati per leggere di due sessantenni inglesi che hanno attraversato la storia del rock riportando il blues in America.

“Live From Madison Square Garden”, approdo newyorchese di un progetto con tutte le caratteristiche del “cash-in” (“facciamo cassa”: è andata così ai tanti Who-reunion tour, è pane quotidiano – e che pane! - quando vanno in giro gli Stones, dicono che Springsteen stia prendendo quella deriva ogni volta che agita le ali della E Street Band), è un disco di spaventosa coesione, talmente bello nel suo sprizzare classic rock da far impallidire ogni jam band che calchi oggi i palchi e ogni formazione che provi a raggiungere quell’equilibrio tra espressività rock-blues e forza del repertorio che solo gli Allman Brothers possono ancora permettersi. Con simile perizia ci si può anche arrivare a suonare anche se non ci si chiama Clapton e Winwood (ma provateci voi, poi ne riparliamo, pur contando che si tratta di slowhands, tanto sulla chitarra Stratocaster quanto sull’organo Hammond B3), ma sembra davvero impossibile, al giorno d’oggi, mettere insieme tante buone canzoni per fare un concerto di pezzi originali. Eh già, perché a parte il largo omaggio a Jimi Hendrix (3 i pezzi, e come non ricordare che anche nella “Voodoo Chile” originale c’era Winwood all’organo) qui viene riscritta una storia quarantennale che è quasi tutta dei protagonisti di questo preziosissimo live. Una storia che dai Bluesbreakers di John Mayall e dallo Spencer Davis Group, passando poi per i Cream, i Blind Faith, Derek and the Dominos e i Traffic è marchiata Winwood o Clapton. Difficile trovare due musicisti che abbiano totalizzato insieme tante esperienze basilari nella storia del rock e che da solisti abbiano raggiunto gli stessi vertici di popolarità toccati da dischi come “Slowhand” (Clapton) e “Arc Of A Diver” (Winwood).


Il bello è che non è qui nemmeno il caso di storcere il naso come si fa di fronte a prodotti del genere, e a nulla serve osservare che negli anni Duemila Clapton non ha fatto altro che unire le forze sue con quelle degli altri (l’album con B.B.King, la fugace reunion dei Cream).


Queste canzoni, il loro amalgama, la piacevolezza con cui tutto ci arriva, quel senso di storia che ti prende alla gola e poi ti mette al tappeto, tutto rende cd e dvd di “Live from Madison Square Garden” una caldo rifugio di vintage rock dove tutto funziona a meraviglia (basti sentire come ci sta bene “Forever Man”, che pure arriva da un Clapton che ammorbidiva il blues nel pop). Tra gemme assolute come “Presence Of The Lord”, “Glad”, “Well Alright”, “After Midnight”, “Can’t Find My Way Home” e “Dear Mr. Fantasy”, ed altre eccellenti riproposizioni come “Cocaine” e “Georgia On My Mind” non avrebbero sfigurato un paio di pezzi del Winwood solista d’alta classifica (“While You See A Chance”?), ma solleveremmo inutilmente la questione del pelo e dell’uovo.

Disco dell’anno, va scritto osando un po’, senza remore né vergogna, anche se mette tristezza sentenziarlo nel giorno in cui muore Les Paul, l’uomo che ha scritto la storia della chitarra elettrica, quindi anche di Clapton.

sabato 8 agosto 2009

HEART AND SOUL: Addio a Willy De Ville


Stava male, si sapeva. Ma l’sms spuntato ieri sera sul mio cellulare è arrivato prima del previsto: “E’ un brutto giorno per la nostra musica: è morto Willy De Ville”. Parole scritte da un amico, con sincero dolore. Ora ho il mare davanti e i monti alle spalle, in mano una copia di Repubblica che ufficializza il decesso e tra le dita un fragile collegamento a Internet che non mi consente di girare troppo per il Web. C’è poco da girare, basta la memoria.
Wille De Ville è quei tacchi che atterrano sul mio tavolo del Savoy (non c’è più, erano i primi anni Ottanta newyorchesi) facendo vibrare i bicchieri. E’ quello sguardo tagliente che mi ha raggiunto da tanti palchi italiani (ce lo siamo goduto davvero, il buon Willy!). E’ quei dischi che hanno flirtato col punk e col rhythm’n’blues ("Coup De Grace": chi non ce l'ha si affanni ora su Amazon), che hanno rasentato il pop (“Miracle”, con Mark Knopfler: che bellezza!) e percorso le strade di New Orleans. E’ quegli angoli di Manhattan dove si parla spagnolo, ne succedono di tutti i colori e le ragazze di nome Rosita camminano al ritmo di Tito Puente.

E’ una musica scritta sempre con amore, anzi con “heart and soul”, dovunque si trovasse lo studio di registrazione in cui veniva prodotta. Willy De Ville è in quelle giacchette strette dell’epoca Mink De Ville (la sua band, quasi una E Street Band con sala prove ad Alphabet City anziché nel New Jersey) e nella trasandatezza un po’ piratesca degli ultimi anni. E’ “Maybe Tomorrow”, è “Could You Would You”, è “Cadillac Walk”, è “This Must Be The Night”, è ”Teardrops Must Fall”, è "You Better Move On", è la migliore “Stand By Me” dopo quelle di Ben E.King (l’originale) e di John Lennon. E’ tutte queste canzoni che ricordo in ordine sparso e che dovrò farmi bastare per un sacco di tempo. Perché, come ha scritto il suo ufficio stampa, “Willy è andato a trovare Jack Nitzsche e Johnny Thunders” (ovvero un sagace mescolatore di suoni e un altro ragazzaccio del rock’n’roll - vedi: New York Dolls). Gente giusta a tenergli compagnia nel silenzio eterno, che tanto silenzioso – immaginiamo – non sarà.

Willy De Ville, che aveva solo cinquantanove anni – 59, come una buona annata della Cadillac - ha attraversato oltre trent’anni di carriera senza mai uscire troppo allo scoperto, senza smettere quasi mai gli abiti del cult artist ma lasciandoci canzoni che solo lui sapeva confezionare in quel modo. Canzoni che hanno infiammato il Bottom Line o l'Olympia allo stesso modo in cui infiammavano, quando giravano meno soldi, i palchi e i festival di provincia. Ci è piaciuto tanto, Willy, anche per la sua unicità, e ora ci mancherà molto. C'è davvero poco da aggiungere.