domenica 4 luglio 2010

BALLANDO COI LUPI - I Los Lobos a Roma - Cavea dell'Auditorium 3 luglio 2010


Se con quelle facce lì e con quell'appeal da camerieri dell'Hilton di Città del Messico facessero musica dalle nostre parti, i Los Lobos troverebbero qualche ingaggio solo tra matrimoni in Riviera e qualche festa di paese. Un contratto con una major? Difficile, se non impossibile. Eppure, partiti da lontano, 1973, anno dal quale – recita la t-shirt venduta dal merchandising – offrono un "quality service", i "lupi" sono la band più trasversale e duttile del rock americano. Lo sono per la versatilità dei componenti, gli stessi da sempre, gente che da quando ha esordito su album (dopo anni da vera "wedding band" in quel di east Los Angeles, il primo importante contratto discografico è arrivato a metà anni Ottanta) non ha scelto di stare da una parte ma "ovunque". E lo sono perchè maneggiano chitarroni e hapanguere, Fender Telecaster e fisarmoniche, Gibson Les Paul da rock duro e, se serve, anche il bajo sexto, una chitarra messicana a dodici corde. Alcuni sono strumenti da musica nortena, quella che dall'alto Messico va a mescolarsi con i suoni del South Texas, per formare il "conjunto", impasto che si nutre tanto di folk nordamericano quanto di saltellanti ritmi latini, altri vengono dalla scuola più conosciuta del rock'n'roll e del blues. Tutto porta a un repertorio che può spingersi dalle balere di Tijuana fino agli angoli più lontani di qualche stato amerucano del nord, dove nei bar sulle statali ancora si suonano, e sempre si suoneranno, i pezzi di Hendrix, degli Allman Brothers, di Richie Valens e di Marvin Gaye.


Basta questo a dire che razza di caleidoscopio portano in giro Hidalgo, Rosas, Perez, Lozano e Berlin, e quanti colori sono capaci di spennellare sulle assi nere di un palco. Quello della Cavea, l'accogliente conchiglia incastrata tra i tre enormi gusci disegnati da Renzo Piano per il Parco della Musica a Roma, può essere un palco difficile, difficilissimo se lo si raggiunge nelle condizioni precarie in cui era la band nei primi venti minuti del set. Strumenti e amplificatori presi in prestito a sostituire quelli ancora in viaggio dall'aeroporto al backstage, cavi inseriti all'ultimo minuto, microfoni sistemati alla meglio, livelli sonori da denuncia, che portavano subito qualcuno ad attraversare la platea per cercarsi un posto da dove non si sentisse solo la chitarra ritmica a tutto volume: questo lo scenario che accompagnava le prime tre canzoni. Poi meglio, con gli strumenti - "our instruments", a lungo invocati soprattutto da Cesar Rosas e David Hidalgo, i due chitarristi e vocalist del gruppo - che arrivavano uno dopo l'altro e uno dopo l'altro conquistavano il palco in una inedita dinamica che diventava parte dello show.

Un po' di mestiere, un repertorio che inizialmente ha puntato molto sull'orecchiabilità dei dischi del periodo 84/90, l'amore compiacente di un pubblico non umerossimo ma tenace e fedele, e via, la macchina sonora dei Lobos, partita a ridosso della corsia di emergenza, ha trovato gas e una linea di mezzeria da ingoiare brano dopo brano, in grande velocità, sempre a cavallo tra le origini (il folklore del Barrio) e la via maestra del rock di casa America, dove a far friggere le due, talvolta tre chitarre erano i più bei pezzi tirati (How Will The Wolf Survive) o quei momenti blues (Just A Man) in cui Hidalgo si inventa una voce che si colloca a metà strada tra Winwood e Clapton.


Non si spaventano i cinque losangeleni (più uno, saltuariamente batterista aggiunto quando Perez imbraccia la terza chitarra) ad indugiare sulle parentesi un po' sperimentali della loro carriera (Kiko And The Lavender Moon), sventolano fieri le loro radici (Volver Volver) convinti che siano un po' anche le nostre, ammiccano un po' (l'accenno di Volare che il pubblico sembra ignorare), cavalcano gli hit conclamati (La Bamba) ma non dimenticano le pieghe più ostiche eppure apprezzatissime del loro lungo percorso discografico (La Pistola y el Corazon, dall'album acustico tutto in spagnolo). Fanno tutto questo con una sicurezza e una destrezza che affascinano e lasciano senza parole, lo fanno continuando a sitemare con la mano sinistra un cavo o una tastiera e incitando i presenti a ballare addirittura sul palco accanto a loro.

Non viene in mente un gruppo la cui setlist sia un tale spaccato di vitalità e storia della musica popolare americana. E non c'è stato spazio per alcune delle facce "altre" che i Los Lobos sanno mettersi, altrimenti sarebbero state canzoncine di marca Disney stravolte dal loro genio incontrollabile, o trame di latin rock meno decifrabile di quello mainstream che i più associano a questa band.

Arriva l'estate piena e con lei un tour americano che vedrà il quintetto attezzarsi per festival di ogni tipo (date anche a fianco della rinata Steve Miller Band), frammentarsi nei Los Super Seven, lanciarsi in Crociere del Rhythm'n'blues (va molto, da qualche anno, pagarsi una crociera dove, a cielo aperto e in navigazione, suonano le tue band e musicisti preferiti) e prepararsi alla nuova fatica discografica, Tin Can Trust, il primo "vero" disco in cinque anni, che sarà nei negozi tra un mese esatto, ai primi di agosto, e conterrà una cover dei Grateful Dead.


West L.A. Fadeaway, che i Dead incisero nel 1987 per In The Dark, è il secondo omaggio di Hidalgo e soci alla band di Jerry Garcia. Ci fu Bertha nel 1991, incisa per Deadicated, l'album tributo ai Dead. Quelli erano anni in cui i Los Lobos erano un po' più centrali nel mercato del disco. Venivano dal trittico, forse insuperabile, formato dagli album How Will The Wolf Survive, By The Light of the Moon e In The Neighborhood. L'eco della colonna sonora del film La Bamba non si era spento e un "certo" suono di Los Angeles aveva ancora tutti i riflettori puntati addosso (dai Blasters a Stan Ridgway, tutti stavano ancora con una major).

Oggi le trecento persone raccolte a Roma testimoniano che almeno da noi è rimasto solo lo zoccolo duro ad occuparsi di certe traiettorie della musica della Città degli Angeli. Non c'è nemmeno da scommettere su alcun ritorno di fiamma. Resta confortante però vedere come questa band sui cui dischi si può leggere, prima dei nomi dei componenti, "The Los Lobos still are...", non abbia perso un grammo di quella scioltezza con cui affrontava i palchi vent'anni fa e più, e che c'è un nuovo lavoro dietro l'angolo.

Serve a restare vivi, a dire "ci siamo", a fare la voce grossa nei confronti dei tipi della Rock'n'Roll Hall of Fame. Perchè è davvero strano che questi "ragazzi", che sembrano avere ingoiato il grande libro di tutte le musiche d'America, siano "solo" ricordati nel "salotto delle celebrità" del Rockabilly per la cover di un brano di Ritchie Valens (La Bamba).
Il che può risultare un onore ma anche una insopportabile limitazione per una band così completa.

(grazie a Filippo De Orchi per le foto dei Los Lobos)